Rielaborazione del lavoro presentato al Convegno congiunto AIPA-CIPA Frammenti di psiche che si è svolto a Roma presso la sede del MAXXI nelle giornate 11-12 giugno 2022. L’intervento aveva come titolo: “Dissociazione e affetti. La via junghiana al trauma”.

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Per affrontare il pensiero di Jung sul trauma dobbiamo prendere le mosse da una “mancanza”: Jung non si è mai occupato in maniera specifica di traumi e, ancor più, non ne ha mai elaborato una teoria. Si tratta di una “mancanza” che rientra nell’atteggiamento complessivo di Jung rispetto ai fatti psichici, ovvero la loro aspecificità, un tratto che caratterizza il suo pensiero e che può creare non pochi problemi di interpretazione ma che contiene anche molte possibilità, aprendo ad una psicologia del tutto originale e, paradossalmente, altamente specifica; si tratta di una paradossalità fruttuosa da tenere sempre presente ogni volta che si è tentati di costruire per Jung un “oggetto” psicologico e una psicologia “oggettiva”. Si può facilmente comprendere che, in mancanza di un’oggetto in senso forte, si rende molto difficoltosa, se non addirittura impossibile, la creazione di una specificità psicologica. Così il pensiero di Jung rimanda a superare i confini di genere della letteratura psicologica specialistica, e questo vale per qualsiasi ambito disciplinare.

Con queste premesse sia pure generali e generiche, anche le esperienze traumatiche, che fanno parte dei fenomeni psicopatologici, sono prese in considerazione con uno sguardo ampio sulla psiche e sulla vita in generale.

Una via junghiana per la comprensione di esperienze traumatiche è anche una via non tecnica, Jung rifugge dai meccanicismi e dai tecnicismi pur non rifuggendo dalla scienza di cui ha una concezione nobile e alta, considerandola solo limitata e circoscritta.

I complessi a tonalità affettiva, che sono alla base di ogni fenomeno, non sono reificazioni della psiche, non sono “cose”, sono modelli, o ancor meglio metafore, che esprimono nel miglior modo ritenuto possibile, l’impossibilità di ridurre i fatti psichici ad elementi primi e sono la migliore testimonianza della complessità della psiche, la sostanza di quella “psicologia complessa” come doveva inizialmente chiamarsi la psicologia analitica.

Il gioco dei complessi, nell’alternanza tra primo piano e sfondo, è guidato dall’affetto che non solo è indefinibile e mutevole ma anch’esso è un fattore complesso, nonostante possa presentarsi come fatto immediato e apparentemente non elaborabile.

Per prima cosa la complessità dell’affetto risiede nel suo essere contemporaneamente materiale e immateriale: l’affettività racchiude in sé le innervazioni corporee che appartengono all’organismo biologico e offrono il mezzo materiale di trasmissione degli impulsi; ma l’affettività è anche un fenomeno vago, altamente “soggettivo”, che si stringe difficilmente in una definizione.

La complessità dell’affetto risiede anche nell’esprimere il punto di incontro fenomenologico di un evento, è la connotazione di tutto ciò che accade, è il legame tra gli accidenti esterni e le posizioni soggettive, ed è sempre l’affetto che sfuma i confini tra l’interno e l’esterno.

Gli affetti hanno anche aspetti consci e inconsci contemporaneamente, sono sentimenti ma sono anche forze, potenze che l’essere umano subisce passivamente. Gli affetti appartengono al regno delle esperienze passive, di ciò che colpisce senza l’intervento della volontà, è il regno dell’involontario, della precedenza di “forme” di esistenza sulla persona che ne fa esperienza. Ma, in quanto Giano bifronte, l’affetto è anche la sommità del processo intenzionale della coscienza, il culmine del dispiegarsi di azioni libere e indirizzate in senso etico.

È per questa complessità delle determinanti affettive che l’esperienza traumatica non è inquadrabile all’interno di parametri prestabiliti e precostituiti.

La psiche è un intreccio, è sempre un tra, quel tra di cui ne ha dato una felice descrizione e struttura concettuale lo psichiatra-filosofo Bin Kimura (2005 e 2013). Il nodo fondamentale della complessità della vita e della conoscenza risiede nell’“esperienza”, che riesce a inquadrare e a mantenere aperto quel produttivo spazio intermedio tra soggetto e oggetto, tra passività e attivazione, tra individuale e collettivo, e riesce così ad attirare l’attenzione sullo spazio di mezzo potenziale dell’intreccio psichico,

Il nodo psichico dell’esperienza è la concretezza di cui Jung ha la massima considerazione, e ogni astrazione teorica non deve dimenticare quel concreto da cui proviene, del quale porta sempre con sé un lembo, sia pur piccolo.

La novità di Jung probabilmente risiede proprio in questo, nel tentare di costruire una conoscenza, e forse una teoria della psiche, né costruita sulla materia né sull’immateriale ma su entrambi. Ogni volta che Jung si arresta per mancanza di pensieri adeguati a sostenere questo Giano bifronte della psiche, tenta ipotesi o dà forma a esperimenti immaginativi per creare una nuova forma di conoscenza, con una azione che è assimilabile a quanto il filosofo Pier Aldo Rovatti indica come gesto fenomenologico: «quel gesto capace di caratterizzare le pratiche nelle quali siamo tutti coinvolti e impegnati» (Rovatti 2021, p. 3). Caratterizzare le pratiche, questa è la teoria per Jung.

Jung ha come sfondo operativo del suo pensiero la concezione di “unicità” della psiche, su modello di un organismo vivente, per cui ogni esperienza rientra in questa visione generale. Anche l’esperienza definita traumatica che rompe il continuum del flusso psichico e della vita della coscienza vi rientra. Viviamo probabilmente in una sorta di condizione microtraumatica permanente, a cui soggiaciamo costantemente e che produce variazione del nostro ordinato procedere così minime che non si rendono percepibili, che non provocano sconvolgimenti e inondazioni emotive pur fornendo quella variazione di intensità e di difformità che consente la dinamica dell’esistenza che è caratterizzata proprio da differenze qualitative. Ma è anche vero che l’abituale, l’ovvio passa solitamente inosservato, si rende percepibile solo se trasformato in qualcosa di insolito, se de-automatizzato, come spiega Lotman. Èd è con la percezione che si conferiscono qualità e valori, i quali rappresentano le condizioni di possibilità perché i fatti esperiti acquisiscano un senso.

Quando al posto di microvariazioni impercettibili e subliminali  un accidente irrompe e devasta la vita di un soggetto parliamo di trauma: l’accidente diventa un ostacolo al flusso ordinato di una coscienza.

E. Munch, L’urlo, versione del 1910

Si tratta di una interruzione esplosiva della continuità, definita in vari modi da Jung, «potentissima carica», «shock emotivo», non è una semplice variazione di quantità di affetto ma ha in sé anche elementi qualitativi che sono propri di un soggetto che fa l’esperienza.

Complessa è la psiche, complesso è l’affetto ma complessa è anche l’esperienza traumatica, una multifattorialità da tenere in considerazione e che indirizza l’attenzione verso la concretezza di quell’esperienza che colloca una persona all’interno di un contesto di cui la sua biografia e la sua storia sono parti principali.

La complessità dell’affetto dà anche una sorta di spessore all’esperienza traumatica, rendendola unica e specifica. Si tratta di uno spessore della materia psichica che riveste l’esperienza traumatica, una specie di densità magmatica dell’accidente e dell’affetto che lo accompagna che non è possibile “vedere” nell’immediatezza con quello sguardo “acuto” che organizza la percezione in senso verticale e gerarchico; occorre, viceversa, uno sguardo orizzontale e trasversale,

capace di una narrazione che sosti nei pezzi sparsi dell’esperienza oramai in frammenti per cercare di comporla, una composizione che potrà avere senso solo se non sarà esclusivamente cognitiva ma se porterà con sé quell’affettività che era stata lacerata. Serve cioè circumnavigare, vedere con sguardo trasversale, aderendo anche all’attrazione esercitata dal “buco nero” dell’area traumatica (Correale 2010) ma essendo anche capaci di prenderne le distanze, di uscirne: “adesione e distanza” come ci invita a comportarci Mario Trevi (1991) in un suo puntuale lavoro di analisi critica a L’io e l’inconscio (Jung 1928).

Il trauma è come un fiume che lascia il proprio letto per prendere un letto secondario per giungere alla foce, così si esprime la filosofa Catherine Malabou (2019).

Una densità affettiva magmatica dell’area traumatica, una trasformazione dello spessore della realtà psichica che si impoverisce e si rende più fragile, secondo Antonello Correale (cit.)

E il richiamo di Jung è di focalizzare la propria attenzione sul fenomeno in tutta la sua complessità.

La fissazione al trauma, il congelamento della temporalità sul passato, l’indisponibilità della memoria, l’assenza di prospettive future, la coazione a ripetere, che si ha tanto con la messa in scena quanto con le reazioni di negazione e di evitamento sono dimostrazioni tutte che l’evento traumatico ha assorbito in modo importante e spesso totalizzante la vita e lo scorrere costante del suo flusso. Si assiste al ripiegamento della vitalità su un’esperienza passata con l’esclusione parziale o anche totale di tutto il resto. Un passato che non è passato.

Che nell’esperienza traumatica si verifichi un processo psichico di tipo dissociativo è oramai riconosciuto dalla vasta letteratura oggi a disposizione.

Jung, che ha un debito nei confronti di Janet, ci rappresenta una psiche costitutivamente dissociabile.

Le teorie dissociative, oggi, parlano per lo più di non rappresentabilità dell’esperienza traumatica, parlano di affetti che si sono separati dal piano cognitivo; Nella clinica della traumaticità, insieme all’esperienza della dissociazione psichica, si manifesta con evidenza il grado molto elevato di intensità della reazione emotiva che l’ha congelata, sprofondandola in uno spazio psichico inconscio di cui non si ha memoria.

R. Magritte, Il doppio segreto, 1927

Ora, sono proprio i nuclei centrali della vita psichica – i complessi – che spingono verso il ricordo o verso la dimenticanza, l’oblio, a seconda del tipo di richiamo affettivo che li caratterizza: perché anche la memoria è affettivizzata, è sempre memoria qualitativa.

La reazione affettiva, passiva e attiva contemporaneamente, nei vissuti traumatici scinde questi due aspetti: la parte attiva si congela e

        diviene indisponibile e rimane solamente il vissuto di aver subìto, di non essere stati in grado di sottrarsi, una sensazione dolorosa accompagnata anche, a volte, da sentimenti di vergogna. Ma l’affetto, esclusivamente caratterizzato dal “patico”, amputato del suo aspetto di agente, con la sua insopportabilità è indisponibile all’Io: l’intera affettività del vissuto traumatico, con la sua doppia caratterizzazione, scompare nell’oblio, in quanto è mancata la sintesi tra l’esperienza subìta e quell’esperienza “non-esperita” della componente attiva.

Memoria e oblio, che non sono feticci statici, stanno tra loro in un’articolazione dinamica con confini sempre modificabili: la memoria non è il “pieno” mentre l’oblio è un “vuoto”, ma anche in questo caso siamo nel tra, tra “lacuna” e “presenza”, tra “passività” e attività”. Ricordo e dimenticanza non sono in contrapposizione ma reciprocamente complementari.

Siamo lontani dalla nascita della psicoanalisi, quando la cura passava nel resuscitare quei ricordi che erano considerati dimenticati, considerando il “ricordare” un “bene” e il “dimenticare” un “male”. È l’ipotesi teorica della dissociazione e della costitutiva dissociabilità della psiche che, implicando una bi-direzionalità tra coscienza e inconscio, rende la dinamica tra passato e presente molto più fluida e più fluidi anche i transiti tra memoria e oblio.

Roberto Beneduce (2010/2019), a proposito dei traumi tanto individuali quanto collettivi, mette in guardia dal voler ricordare a tutti i costi ciò che si è dimenticato per non scatenare un dolore estremo.

P. Picasso, Massacro in Corea, 1951

Anche gli psicoanalisti dell’età evolutiva prendono le distanze da una terapia che si avvalga di una certa violenza anche solo verbale per costringere i bambini a ricordare e rivivere l’evento considerato traumatico (Carignani, 2016).

Correale (2000) invita a non indagare in modo troppo ravvicinato e piuttosto attestarsi ai bordi dell’area traumatica per imparare a entrare ma anche saperne uscire.

Occorre esercitare il massimo rispetto verso l’oblio e proteggerlo anche dal dolore della memoria. La protezione dell’oblio ha una funzione fondamentale per la vita intra- ed inter-psichica perché equivale a proteggere l’involontarietà di quella dimenticanza che si sovrappone per larghi tratti all’inconscio. Ed è proprio l’involontarietà dell’affetto nelle esperienze traumatiche che rende la terapia un compito delicato e affidato alla sensibilità dell’analista.

Poter raccontare un proprio vissuto doloroso in cui si era totalmente impotenti implica percorrere una via lunga fatta di riconoscimenti cognitivi e di rispecchiamenti emotivi. Nelle situazioni traumatiche più gravi le parole cessano, le parole del trauma sono parole soffocate secondo la felice espressione di Sarah Kofman (2010), una voce che muore in gola prima di tradursi in linguaggio.

Ma è possibile narrare l’esperienza di ciò che non può essere oggetto di un racconto?

Non si tratta tanto di scoprire e narrare tracce che rappresentano il passato in una riproduzione di tipo mimetico che non aggiunge nulla. Il racconto deve diventare una trama (Lingiardi): diventare una trama, cioè valorizzare il tracciato dell’esperienza di vita, dare valore a ciò che si è vissuto, plasmare lo spessore di quella specifica affettività ferita.

La memoria segna uno dei punti salienti intorno a cui ruota il discorso sul trauma, e il non-ricordo assume la veste fenomenica della memoria del non-ricordo, qualcosa che non è pura negatività ma pulsazione attiva. Ogni ricordo, infatti, pur avendo come proprio oggetto il passato, è sempre anche una funzione del tempo presente, la memoria è un risveglio secondo il filosofo Walter Benjamin, e il lavoro della memoria è una tessitura, una «‘costruzione’ fragile e dinamica, costantemente instabile, dai percorsi accidentati, sempre al crocevia tra oblii, usi, abusi, anamnesi, memorie divise che si fanno ombra reciproca» (Di Castro 2008).

E come nella tessitura di un manufatto, così nella costruzione ad opera della memoria è necessario preservare gli spazi vuoti, momenti indispensabili con l’avvertenza che non rimangano buchi che mettano a repentaglio il risultato stesso. Anche gli spazi vuoti sono tasselli di una trama dell’esperienza di una vita.

Come avverte lo stesso Benjamin, l’esperienza nel senso proprio del termine implica «l’apertura di uno spazio pluridimensionale in cui convivono memoria individuale e memoria collettiva, ricordo volontario e involontario che perdono così la loro esclusività reciproca» (Benjamin 1939, p.93).

Per salvaguardare la complessità dell’esperienza traumatica in tutte le sue molteplici facce, ed evitare così le trappole di un tecnicismo riduzionistico troppo spinto, secondo Clara Mucci (2014) l’analista deve farsi testimone, deve testimoniare il trauma.

Jüdisches Museum Berlin, Shalechet – Foglie cadute.
installazione artistica dell’artista israeliano Menashe Kadishman 

Primo Levi, nelle sue ineguagliabili pagine, ci ha trasmesso il valore della testimonianza, all’interno però del riconoscere che i veri testimoni non sono i sopravvissuti ma i sommersi che, come tali, non potranno mai testimoniare. Levi coglie la profonda contraddizione insita nella figura della testimonianza per cui vero testimone è colui che non può più parlare, che può testimoniare solo con il suo silenzio. Siamo sempre all’interno dell’indicibilità dell’esperienza traumatica, il suo indicibile che non può accedere al piano narrativo.

La contraddizione della testimonianza nei traumi collettivi è la stessa anche nelle esperienze traumatiche personali, in cui possiamo scorgere una sorta di «destino di rimanere intrappolati in un conflitto tra acquisire consapevolezza di quanto è successo e il rifiuto di conoscere e di sapere» (Alfani (2020, p. 159).

È una contraddizione che non può essere elusa dall’analista. Il fatto, così come è accaduto, va preso in considerazione con il timbro emotivo della testimonianza attiva per rompere il bozzolo del silenzio in cui il paziente è rinchiuso, occorre restituire il paziente che ha vissuto l’esperienza traumatica a quella collettività da cui l’evento lo ha separato. Le esperienze traumatiche al fondo dis-umanizzano chi le vive, riducono al silenzio, per insopportabilità, per dolore, per vergogna, per essere certi di non poter essere compresi.

Parlando di Auschwitz, Agamben (1998) sottolinea che se si rimane prigionieri dell’unicità e indicibilità di quell’orrore, si continua a rendere quelle persone non più soggetti, si continua a disumanizzarle, mentre hanno il diritto di parlare di sé per riappropriarsi della propria storia, anche del proprio dolore.

Ma allora, presi nella tenaglia tra impossibilità e possibilità di dire cosa possiamo fare? Dobbiamo arrestarci? Anche in questo caso la dimensione psichica del “tra” viene in soccorso: evitando di prendere posizione per l’uno o l’altro dei due “corni” del dilemma, si profila la strada di tenere entrambi e di configurare il come narrare e non soltanto ciò che si narra: da analisti dobbiamo pensare che è affidato al come tanto il senso della presenza dell’analista quanto la testimonianza di ciò che non è narrabile e non lo potrà mai essere. Se l’analista opera come “testimone” del trauma del paziente, può riuscire a preservare sia la memoria del trauma sia la dimenticanza, il suo oblio.

E il come del narrare implica oltre al piano narrativo, anche l’esperienza viva dei momenti analitici, configura l’espressività e dà forma a questa esperienza che ha in sé tutta una gamma di movimenti anche impercettibili, sguardi, reazioni del corpo, interruzioni, silenzi e così via.

Considerare l’esperienza traumatica un fenomeno complesso riesce anche a contemperare quella netta divisione tra trauma reale e fantasticato come era stata prospettata da Freud. Questo non perché siano la stessa cosa ma la distinzione, nell’incontro psichico, non può essere preventiva. Se junghianamente reale è ciò che agisce, realtà e fantasticheria hanno la stessa capacità di azione sulla psiche e un lavoro sull’area intermedia tra fatti e fantasie è più importante di insistere sulla distinzione dei due piani. Il nodo psichico del tra coinvolge anche i due piani della realtà e del fantasticare sui cui confini labili si lavora nelle esperienze traumatiche, dove una mente sognante ha altrettanto valore di una mente raziocinante, dove si lavora nello spazio intermedio delle indistinzioni perché è lì che possiamo trovare le potenzialità per la ricostruzione di quel senso di sé che nell’esperienza traumatica era andato perduto.

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