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1. Premessa

Considerando una certa linea di pensiero teoretico basata sul contributo e sull’impostazione della fenomenologia esistenzialista in diverse sue sfaccettature, non si può negare negli sviluppi di questa l’apporto fondamentale del dispositivo della psicoanalisi lungo l’ampio arco storico dell’ultimo secolo (intendendo tale dispositivo nella sua essenza squisitamente teoretica e non precipuamente clinica)[i]. In tal senso è possibile riprendere questa traiettoria, come concezione dell’avventura umana, in uno sfondo per così dire deleuziano, vale a dire, per essere più precisi, tentando di andare nella direzione indelebilmente segnata da alcune tracce-maestre come ad esempio quelle contenute negli scritti di Critica e clinica[ii].

Si vuol far qui riferimento ad una direzionalità che muove dal trattenimento all’espulsione, il percorso sempre tortuoso dalla latenza all’invenzione. Quell’operazione costitutivamente liminale e rischiosa che in quanto invenzione è sempre scrittura[iii], non più come marchiatura meramente grafica di una pagina ma come impressum disincarnato che è al contempo in grado di donare vita concreta ad un nuovo gesto, ad una nuova postura. Deleuzianamente, ciò non può ogni volta non avvenire attraverso l’uso-creazione di una lingua-linguaggio[iv]: il farsi gesto compiuto è un movimento che contiene in sé l’invenzione del suo stesso gesticolare. Il télos del gesto compiuto racchiude in sé a sua volta – e forse tautologicamente – lo scopo, l’obiettivo, la finalità del voler-giungere al nuovo, all’impensato, alla visione, quindi all’opera.

Un gesto che si potrebbe allora configurare come delirio creativo-artistico – laddove il riferimento all’artisticità di questo gesto è e deve restare in questo scenario sempre ambiguo e ambivalente: potrebbe riferirsi all’opera per come abitudinariamente si intende l’opera d’arte, ma anche all’opera come monumento, come pura concrezione, deposito, accumulo prodotto da fenomeni carsici, in una direzione pur sempre volontaristicamente orientata. Una opera-operazione come voce della compiutezza, come il processo stesso del farsi voce[v]: un farsi-voce inteso sempre provvisionalmente come trasfigurazione della voce dell’origine – dell’origine totemica, della matrice.

Ebbene, la domanda-questione che vuole porsi al centro di questa riflessione riguarda la condizione di possibilità dell’esser-etico di un gesto di tal fatta. Può dirsi etico il gesto nei cui margini prende le forme un delirio creativo-artistico, un delirio-scrittura, un delirio-invenzione, che avviene attraverso l’uso di una lingua straniera e che innanzitutto non potremmo fare a meno di definire come avventura del dentro e dell’attraverso che conduce al fuori? Può esserci significato etico in questa operazione – probabilmente non nelle forme di un’etica già costituita, sistematizzata, istituzionalizzata in modo enciclopedico-geometrico, ma nelle forme istintive ed intuitive di un gesto etico, nelle forme eventuali di una eticità del gesto?

2. Ipotesi di una compromissione esistenziale

«Varrebbe davvero la pena di considerare i cumuli di detriti, di macerie e di rifiuti sui cui sembrano innalzarsi le opere di artisti importanti, e ai quali, sfuggendone a stretto rigore, essi devono tuttavia qualcosa del loro habitus»[vi].

È l’incipit del secondo paragrafo del lavoro critico di Adorno sulla musica di Wagner. Un annuncio monolitico, sconvolgente, perentorio, eppure isolato, dimenticato nel prosieguo della trattazione. Una indicazione programmatica, l’annuncio di una ricerca che sarebbe importante concepire e compiere, e compiere in modo rigoroso. Uno scintillio prezioso, che vale la pena riprendere ed analizzare, emanato da un autore che – com’è noto – si fece alfiere dardeggiante di una critica strenua e sagace all’industria culturale e al consumo dei suoi prodotti di cui si beava la società di massa, erigendola su basi hegeliano-marxiste e – tale dettaglio per noi è rilevante – già informate dell’utilità di un dispositivo psicoanalitico-teoretico applicabile all’analisi della cultura.

Quali sono questi detriti, macerie e rifiuti, di cui consisterebbero le opere? Detriti, macerie e rifiuti, verso cui tali opere sarebbero debitrici del loro habitus, a cui cioè dovrebbero qualcosa di fondamentale che influirebbe sulla loro stessa costituzione, sul loro stesso costituirsi ontologicamente come opera, come operazione artigianale, produzione intellettuale, artefatto estetico. Adorno non lo spiega. Si potrebbe allora innanzitutto desumere che per opera debba intendersi in tal senso un costrutto ordinato che organizzi, metta in forma, un eventuale materiale che originariamente si presenta in forma disordinata, caotica, magmatica – appunto detriti o macerie, nella forma di frammenti pulviscolari privi di senso compiuto. Un materiale informe e confuso, che necessita di essere lavorato e rielaborato per diventare opera.

In tal senso, e al contempo allargando il quadro, ci si vuol qui riferire ad un modo di intendere la vicenda esistenziale come inesausto ricercare una condizione – uno stato di grazia[vii], per così dire – in cui si è capaci di risemantizzare[viii] il primordiale caos del mondo: la vita come tentativo incessante di fare ordine. Un secondo piano di realtà[ix] permeato dal continuo e costante riversamento del flusso del caos in uno schema organizzato. L’operatività-operazionalità di questo movimento consisterebbe nel ricostruire e incardinare la caoticità intrinseca delle cose del mondo in un ordinamento altro. Si potrebbe definire questo movimento, con Russell, come «elemento costruttivo»[x]: «si costruisce qualche cosa che resta quale monumento quando l’opera è finita»[xi]. L’elemento costruttivo che trova libera applicazione nel ristrutturare le rovine e i rifiuti, gli scarti e i detriti, ricostituendo il tutto in un ordine incorruttibile, in un ordinamento rinnovato e ritrovato[xii].

Tornando alla questione sollevata, proviamo a dare una risposta più efficiente all’interrogativo in merito al materiale informe di partenza. Ci si chiedeva: quali sono questi detriti, macerie e rifiuti, di cui consisterebbero le opere? Si tratta di un materiale informe e originario, ma, in quanto originariamente costituito da scarti, potrebbe essere pensato come una situazione di compromissione.

Questo termine si fa provenire dalla filosofia del diritto, in cui il tema della compromissione ha a che fare con l’ermeneutica giuridica. Si parla in tale ambito di compromissione valutativa delle descrizioni, ovvero la sempre inevitabile formulazione da parte del soggetto ermeneutico di giudizi di valore, che possono inficiare, modificare, invalidare – quindi compromettere – la sua stessa possibilità di valutazione obiettiva dei fatti e dei dati di realtà[xiii]. Nell’ambito dell’ermeneutica giurisprudenziale, dunque, la compromissione origina da una voce – distorta – del soggetto che si esprime. E di una distorsione si tratta, anche nel caso dell’estendere questa impostazione concettuale al nostro ambito di riferimento.

Per compromissione del soggetto si vuol cioè intendere una distorsione costitutiva e originaria del soggetto, e, quindi, del suo modo di esprimere la propria voce-operatività; un laico peccato originale, per così dire. Si può già intravedere facilmente in questo un senso ancestralmente etico della questione. In quanto raccoglitore di materiali caotici-informi-disordinati, il soggetto è ontologicamente ed eticamente già compromesso. Proviamo allora, per poter più agevolmente illustrare il concetto, a pensarlo provvisoriamente come una sorta di forma sinonimica della deiezione heideggeriana[xiv]. Ciò assunto, per procedere ulteriormente va posta una semplice ed ovvia domanda: da dove origina la compromissione? Qual è la sua fonte deformante primaria?

Esiste una nozione, meno nota di altre, della teoria freudiana, che è quella di inconscio acustico[xv]. Se si confrontano le rappresentazioni grafiche dell’apparato psichico del padre della psicoanalisi, comparando le prime versioni con le ultime[xvi], si noterà che questa nozione-dispositivo, nel giro di dieci anni, è letteralmente scomparsa dagli schemi sia concettuali che propriamente figurativi dell’inconscio. Questo è un dato di estrema importanza; recuperarlo significa poter ricostruire una certa versione della storia identitaria del soggetto. Che cos’è l’inconscio acustico? Esso consisterebbe nella fissazione automatica e inconscia, di matrice totemica – cioè di origine totemica, di provenienza totemica – della voce. Della voce ricevuta – della voce ricevuta come ingiunzione, come prescrizione, come derridiana percussione; la voce che forgia e plasma, intesa come potente e insindacabile iscrizione nella storia del soggetto[xvii]. Intesa come forza inesorabile che segna e modella in modo tanto intransigente e ineludibile (da parte del donatore), quanto involontario e inconsapevole (da parte del ricevente): la voce ricevuta che diventa allora – per il soggetto che procede nel suo inarrestabile percorso di individuazione – una scaturigine primaria, una originaria e indelebile fonte significante. Voce che si sentirà poi il bisogno di restituire: una voce da devolvere in qualche modo, da ridare indietro, una voce dovuta[xviii]. Questa voce ricevuta e percuotente si inscrive nel bianco del testo vivente; diventa una traccia automatica, nel senso di uno schema, di uno scheletro esistenziale da seguire automaticamente, ossia con automatismi incontrastabili, si potrebbe dire automatisticamente, che è come dire autisticamente. È un’impronta indelebile, la coazione obbligatoria e inevitabile al rispetto di antiche vestigia[xix], che sembrano – solo sembrano – immutabili e immortali: la ripetizione meccanica e automatizzata di segni che non sono più simboli, cioè di meccanismi che hanno perso il loro significato, la loro funzionalità, il loro servire a qualcosa – geroglifici intraducibili – e, pur stantii e logori, sono condannati all’apparentemente eterna reiterazione. Sembra chiaro che, così posta la questione, si sta parlando di un limite vitalistico, dell’essere legati da una costrizione che impedisce il pieno esercizio della libertà e della vitalità, dell’essere condannati all’apparente insostituibilità di se stessi[xx]. Se si accettano i termini in cui la questione si può porre, è conseguentemente spontaneo, allora, certificare che il bianco del testo vivente non è più immacolato: ha smesso di essere puro, poiché è stato inciso, scavato, marcato. È stato dunque compromesso.

3. Avanti e indietro nel tempo

Per tentare di risolvere la situazione originaria della compromissione, per risollevarsi dall’apparentemente eterno determinismo che avrebbe corrotto il materiale vivente di partenza, scolpito dai comandamenti normativi che hanno segnato l’individuo, è necessaria un’azione di ripresa[xxi]. Tale azione va intesa innanzitutto come possibilità immaginativa e narrativa di dar forma all’informe, di dar forma ordinata ad un contenuto indisciplinato, di mettere ordine al caos. Possibilità immaginativa in quanto è necessario innanzitutto immaginare la possibilità di farlo, immaginare la concretezza dell’essere in grado di compiere tale operazione; possibilità narrativa in quanto l’azione propriamente da svolgere è quella di narrare la propria storia applicando nuovi filtri che permettano di leggere in modo diverso gli stessi contenuti[xxii].

È in questo modo, da applicare alla scrittura della storia personale, che può essere letto anche il modo di funzionare della storia collettiva: la nostra storia è di fatto una storiografia, una scrittura della storia, ossia l’imposizione dell’ordine sul disordine, dell’immaginazione del presente sul materiale inerme di cui consta il passato, un continuo dar forma ad un passato caotico allo scopo di incasellarlo nelle maglie di una narrazione ordinata e lineare, funzionale ai nostri bisogni di comprensione[xxiii]; se ciò accade per la Storia di tutti, è possibile rimodulare questo atteggiamento ermeneutico anche per la storia individuale. La nostra capacità interpretativa e narrativa sembra predisposta per affrontare la complessità della realtà e ricondurla ad una nostra versione di essa, un resoconto che ha il vantaggio di aver disciplinato e ricomposto ciò che prima sembrava incontrollabile.

Si può obiettare: tale resoconto finale potrebbe essere pensato come fittizio. Come rispondere a questa eventuale obiezione? Perché il resoconto sarebbe fittizio? Solo perché si è tentato di disporre in modo diverso gli stessi elementi di prima, ma in una posizione differente? In verità, condotta ipoteticamente a buon fine una simile operazione, si può convenire che non si saranno inventati nuovi elementi, ma si saranno solo disposti in un nuovo ordine sulla scacchiera gli stessi pezzi di prima. Una simile operazione di mise en ordre, insomma, risulterebbe non solo profondamente convinta ma assolutamente autentica, visto che non prevede la invenzione di contenuti inesistenti – sarebbe pura fantasia, puro gioco, pura letteratura – ma solo la re-invenzione dei contenuti precedenti, ossia la loro ri-disposizione in forma nuova[xxiv].

Tale è l’operazione della ripresa per come la intende Kierkegaard, la doppia direzionalità del ricordare procedendo: un equilibristico muoversi avanti nel tempo, andando contemporaneamente sempre all’indietro, ma senza mai smettere di continuare ad avanzare[xxv]. Lungi da paradossi e aporie, il filosofo di Copenaghen reputa la conoscenza un’attività della memoria, che si può configurare come reminiscenza quando il movimento è solo all’indietro (il retrocedere, il ricordo, la considerazione pura e semplice del passato) e come ripresa quando il ricordo non viene semplicemente recuperato ma anche riconsiderato. Secondo Kierkegaard, il solo ricordo è vita mancata, vita inautentica, in quanto – nel presente – non vissuta, se non in una forma di nostalgia del passato; invece la ripresa è vita autentica, vita felice, in quanto vita vera[xxvi]. Se allora, in tal senso, riprendere vuol dire andare indietro andando avanti, l’operazione stessa di questo riprendere è di fatto una operazione di soggettivazione della voce originaria, della voce passiva, ricevuta dal soggetto.

Com’è noto, il soggetto è detto tale poiché – etimologicamente – il latino subiectum traduce il greco ὑποκείμενον, che è in generale tutto ciò (vivente e non-vivente) che soggiace o sottostà; il soggetto è quindi tale poiché è stato posto, è stato sottomesso, è stato sottoposto ad una percussione, è stato passivo. La ripresa da compiere è dunque la ripresa di una voce passiva che deve essere attivata, di una voce al passivo che deve essere resa attiva. Di una voce che deve essere individuata, per formarsi come indivisa. Per dirla con due modi differenti di dire io, il soggetto in quanto voce passiva deve autosoggettivarsi e autoindividuarsi allo scopo di diventare individuo in quanto voce non disunita e attiva.

La vera domanda, nella nostra prospettiva, diventa allora questa: può questo processo lavorare e funzionare in simbiosi e in parallelo con la traiettoria della costituzione di un’opera? Non solo e non per forza con esplicito riferimento alla creatività artistica, alla produzione estetica in senso pieno e preciso, ma nel senso di una operazionalità che conduce alla formazione di un costrutto, al conseguimento di un risultato in quanto risultante dal percorso vissuto. Può la voce del soggetto prender forma, compiersi e quindi esprimersi trasfigurando l’esistenza in opera? Utilizziamo qui il verbo trasfigurare e quindi l’idea-concetto di trasfigurazione[xxvii] non nel suo originario senso teologico-religioso, ma intendendolo come trasformazione del pensiero in atto o contenuto, quindi come eventuale prospettiva di indagine su dinamiche e meccanismi dell’espressività, nel senso di una vera e propria filosofia dell’espressione (che una filosofia della voce così concepita inevitabilmente è), nel senso di quella doppia direzionalità che retrocede procedendo, che scava una archeologia mentre contemporaneamente si proietta in avanti verso una teleologia[xxviii].

«Creazione ed escatologia si annunciano come orizzonte della mia archeologia e come orizzonte della mia teleologia. L’orizzonte è la metafora per ciò che è sempre più vicino senza mai diventare oggetto posseduto. L’alfa e l’omega si avvicinano alla riflessione, come orizzonte delle mie radici e come orizzonte delle mie mire; è il radicale del radicale, il supremo del supremo»[xxix]. Così scrive Ricoeur. In una tale prospettiva di indagine, di conseguenza, la destinazione coincide con l’origine; al contempo, l’origine si realizza e trova compimento nella destinazione; e se la destinazione coincide con l’opera, solo alla fine, a posteriori, a opera compiuta, ci si potrà chiedere: qual è stata l’origine dell’opera, la sua provenienza[xxx]? E quindi, qual è la sua essenza? Se la provenienza, l’origine dell’opera – il suo senso, il suo percorso, il suo itinerario – ha a che fare con la soggettivazione di questa voce che infine si costituisce e si compie, qual è l’essenza dell’opera? Vale a dire, qual è il suo valore ultimo, il suo significato?

Abbiamo di fronte varie opzioni.

1. È un costrutto, una struttura, una concrezione assolutamente insignificante?

2. In quanto itinerario di soggettivazione personale, l’opera sarà significativa ma solo in senso egoistico-solipsistico? Avrebbe cioè valore e senso solo per il soggetto?

3. Può invece esistere un valore che va oltre rispetto al soggetto stesso, in quanto possibilità di condivisione dell’opera, e quindi sua apertura al mondo? Non sarebbe questo, forse, un carattere di eticità dell’opera?

Prendendo in considerazione l’ultima opzione, da dove deriverebbe questo carattere di eticità? Potrebbe l’opera stessa configurarsi come gesto etico? Potrebbe l’opera avere valore etico, innanzitutto in quanto atto fondativo del soggetto («Lo faccio per-me», non in quanto gesto egoistico, piuttosto in quanto gesto morale), ma anche in quanto produttrice di bene, di un bene che si apre all’esterno e al di là di se stessa? Se non si risponde alla chiamata[xxxi], si vive senza vivere, nel caos, nel disordine, nell’infelicità; nell’aprogettualità, nell’inautenticità. Rispondere alla chiamata vocazionale della propria coscienza sarebbe in tal senso un atto etico verso se stessi, il primo atto etico in assoluto, progenitore di ogni altro a venire. Un gesto etico autofondativo che consentirebbe successivamente di aprirsi alla fondazione di un’etica transindividuale, di una visione intersoggettiva, che prenda in considerazione l’altro, e nella cui prospettiva l’espressione della propria voce sarebbe il primo passo verso un nuovo orizzonte, comune e plurale.

4. Presenza e assenza

Riprenderemo più avanti la questione dell’eticità del gesto in quanto possibile prospettiva filosofico-morale. Concentriamoci invece come passo successivo proprio sul gesto in quanto tale, sull’operazione della trasfigurazione, sull’operatività che dà corpo all’opera. La nozione freudiana di nachträglichkeit[xxxii], poi ripresa da Lacan come après-coup, ben rappresenta questa dinamica psicologica del ripensamento retroattivo, della possibilità di reinventare il passato rendendolo sopportabile e funzionale in vista di un’idea superiore, che al contempo lo riassume e lo giustifica: la ri-decisione. Non si tratta però solo di rileggere il passato, ma di riscriverlo. Questo processo è evidentissimo e ben incarnato dalle biografie filosofiche di Sartre (dei personaggi Baudelaire, Flaubert, Genet[xxxiii]), laddove la rilettura di una vita diventa anche la sua riscrittura: quel tentativo faticoso eppure rivoluzionario di trasformazione, di conversione di un vissuto personale – attraverso il desiderio – in opera compiuta. Una operazione di fuoriuscita della voce, un movimento in grado di impugnare una identità – che in apparenza è stata deterministicamente assegnata – e ribaltarla: come si diceva, reinventarla, riscriverla daccapo. Un rimettere in discussione i pilastri fondamentali del soggetto – la voce passivamente ricevuta – attraverso non una semplice, sterile e meccanica attività di trascrizione e trasferimento, ma attraverso una vera e propria attività creativa di trasposizione e riconfigurazione, con la finalità estrema di sciogliere e ri-coagulare, ri-comporre, i materiali in un nuovo depositarsi, in una concrezione compiuta e volontaria: l’opera (la voce-opera).

Quali sono le caratteristiche della voce-opera? Quali sono i suoi meccanismi di funzionamento? Com’è possibile riuscire ad elaborare un costrutto che – mentre esiste – parli di ciò che non esiste più (in quanto è stato trasfigurato)? In ultima istanza, si sta trattando di una elaborazione che nasce dalla trasformazione di un materiale apparentemente inconvertibile in una (forma di) espressione. Il materiale originario, si è detto, deve essere ri-formato, ri-modellato plasticamente, ri-costruito dalle fondamenta, in una configurazione radicalmente nuova. Questa operazione di messa-in-forma deve però, in qualche modo, mantenere alcune delle strutture dalle quali è cominciata; la mise en ordre è messa-in-opera di elementi pre-esistenti, come si è detto (scarti, detriti, rovine, macerie, rifiuti), che in qualche forma sopravvivono. Cosa resta di questi elementi pre-esistenti nell’opera-monumento[xxxiv] che arriva infine?

Si potrebbe dire che la voce-opera abbia del fantomatico[xxxv]. Si presenti nelle forme di un gioco misterioso e ingannevole, forse insincero, ma contemporaneamente – e forse proprio per questi suoi tratti – anche pieno di fascino. L’aggettivo fantomatico, etimologicamente, deriva dal francese fantomatique, a sua volta derivato dal sostantivo fantôme, fantasma. Una voce-opera che abbia del fantomatico, cioè che sfugga misteriosamente ad ogni definizione, ad ogni tentativo definitivo e ultimativo di inquadramento, sarebbe allora anche un’opera in cui agirebbero dei fantasmi[xxxvi] (in cui, come fantasmi, si muoverebbero gli elementi pre-esistenti di cui si parlava in precedenza). Ragionando in questi termini, si arriverebbe allora all’ipotesi che non possa esistere nulla che di per sé abbia una esistenza puramente positiva: tutto ciò che esiste sarebbe possibile cioè solo sulla base di una lunga serie di assenze, di cose che non ci sono, che lo precedono e lo circondano, che aleggiano, e al contempo che lo sostanziano. Assenze che Fisher chiama futuri perduti[xxxvii]: i futuri che non si sono verificati, le promesse a cui non è stato dato seguito. Siamo al tema della hantologie[xxxviii]. I detriti, le rovine, le macerie, ora ri-messe-in-forma, ri-edificate, apparentemente non più esistenti sotto la forma del precedente stadio d’essere, continuano ad aleggiare. Gli elementi pre-esistenti perseguitano l’opera compiuta; il passato infesta il presente. È la straordinaria invenzione derridiana della scienza dell’ente riletta come scienza del fantasma; l’ontologia dell’opera diventa una hantologie dell’opera. L’hantologie è una agenzia del virtuale[xxxix]: il fantasma di cui parliamo non ha nulla di sovrannaturale, è semplicemente una forza che agisce, che ha il potere di agire, pur senza esistere fisicamente. È un concetto dotato di spessore e vigore, essendo esso potentemente in grado di rievocare altre voci che hanno evidentemente molto lavorato sull’idea di una causalità spettrale: «l’opera d’arte dona presenza ai fantasmi dell’artista»[xl], scrive Ricoeur in merito.

Uno spettro è ciò che indubbiamente agisce senza esistere fisicamente, e ha il potere di farlo in quanto – in qualche forma, non per forza identificabile – in passato è esistito. È esistito almeno nelle forme di una voce che ha agito su di noi, plasmando il futuro, tra i possibili, che infine si è verificato[xli]. Quell’opera finalmente compiuta è, quindi, una rappresentazione in grado di donare presenza a quella voce spettrale, infestante, e di fatto assente. Già lo stesso Freud, dalla sua prospettiva e quindi in un senso precipuamente clinico, aveva iniziato a mettere in rilievo l’importanza di questa dinamica: «L’osservazione psicoanalitica (…) riconosce (…) nell’esercizio dell’arte un’attività che si propone di temperare desideri irrisolti, e precisamente in primo luogo nello stesso artista creatore e in seguito nell’ascoltatore o nello spettatore. Le forze motrici dell’arte sono gli stessi conflitti che spingono altri individui alla nevrosi»[xlii]. L’opera, nella lettura freudiana e con riferimento specifico all’azione artistica, è allora possibilità di salvezza e redenzione: evitare il baratro esistenziale trasformando la contingenza in necessità, trasfigurando la deiezione in un movimento risollevatore, e, per ciò stesso, al contempo alleviante. Il fondatore della pratica psicoanalitica afferma inoltre: «Il rapporto tra le impressioni infantili e il destino dell’artista da un lato, e le sue opere come reazioni a queste sollecitazioni dall’altro, fa parte dei temi più attraenti dell’osservazione analitica»[xliii]. Il costituirsi della voce-opera, quindi, si può qui ulteriormente pensare come reazione ad una sollecitazione: la sollecitazione è la voce ricevuta percuotente, la reazione è la risposta del soggetto il cui movimento è di assunzione su di sé di quella voce. Ci si assume la voce come ci si assume una responsabilità: il compito immane è poi quello della ristrutturazione sin dalle fondamenta di quella istanza, al fine di ri-espellerla in forma compiuta, definitiva, e – cosa ancor più importante – spesso irriconoscibile, nuova (personale, anzi personalizzata, ovvero: soggettivata). Proprio questo passaggio, questa transizione, viene così spiegata da Freud: «In quanto realtà convenzionalmente accettata, (…) l’arte costituisce un regno intermedio tra la realtà che frustra i desideri e il mondo della fantasia che li appaga, un dominio in cui sono rimaste per così dire vive le aspirazioni all’onnipotenza dell’umanità primitiva»[xliv]. Anche omettendo eventualmente uno specifico riferimento alla pratica artistica, nella nostra prospettiva la possibilità di una filosofia della voce si inscrive in questo dominio intermedio, un registro a metà strada, come si diceva, tra il reale e il virtuale, laddove il virtuale trova compimento nel reale – la fantasia con funzione appagante di Freud si compie cioè nella compiutezza della voce-opera.

La transizione, il passaggio, il momento della trasfigurazione, è allora anche uno scarto. Vi è un momento di misteriosa trasposizione nell’assenza che si concretizza nella presenza, nel virtuale che trova compimento nel reale, nella fantasia che trova sostanza nella realtà dell’opera. Questo mistero è l’insondabile di ogni fenomeno che concerne l’inconscio: nelle parole esplicite e dirette di Lyotard, «ciò che l’artista esprime è la figura dell’inconscio»[xlv]. Prendendo ad esempio il fatto plateale e universalmente comprensibile della dinamica artistica, il filosofo francese esprime con nettezza l’idea che tutto ciò che un autore rappresenta e racchiude è proprio il nucleo di ogni meccanismo afferente all’inconscio. La sua opera è transustanziazione laica: il suo più vero e profondo è presente nell’opera, eppure l’opera è stata generata e configurata dando corpo a quanto di più distante dalla sua esperienza e dal suo vissuto.

Questo mistero laico, questo insondabile, si declina anche come fascino di un luogo inesistente eppure concreto, un altrove continuamente reiterato e riprodotto dall’azione di fruizione attivo-passiva dell’ascoltatore o spettatore di cui parlava Freud: l’opera rivive come un sogno guidato, come uno scenario onirico indotto, ogni volta che viene fruita. «Le opere d’arte – scrive ancora Lyotard – non assomigliano al sogno per ciò che hanno di gratuito, immaginario, opaco?»[xlvi]. Nell’opera troveremmo svolta, in qualche misura, la medesima attività che costituisce il lavoro onirico. In essa, in effetti, quelle attività operazionali di ri-creazione, figurazione e rappresentazione, condensazione, spostamento[xlvii], che nel sogno (o nel sintomo, che è lo stesso) hanno lo scopo di travestire il desiderio in quanto intollerabile, sono utilizzate allo scopo di diffondere – al contrario – ciò che dà armonia, che rassicura, che è familiare, insomma la buona forma. Una buona forma che, sorprendentemente, serve in realtà per esibire il brutto, l’inquietante, lo straniero, l’informe, a cui il disordine dell’inconscio corrisponde. Un lavoro, quello della costituzione della voce-opera, che potremmo anche definire teratologico, una attività di scandagliamento del mostruoso e di sua ri-creazione, una operazione di scavo nei meandri oscuri del soggetto (la sua esistenza passata, reale e immaginaria, esteriore e interiore) volta alla finale e trasfigurata emersione dei suoi nuclei più inaccettabili e ineffabili.

5. Questioni di risonanza

Il tema dell’assenza che si presentifica si può coagulare attorno alla nozione di risonanza. Essa è stata tematizzata da Heidegger[xlviii] ed in seguito ripresa da Minkowski[xlix]. Nell’itinerario filosofico heideggeriano, la questione della risonanza è il primario e fondamentale momento di ri-apertura e ri-strutturazione della sua radicale e totalizzante esperienza di pensiero[l]. Anche ripensando alla successiva trattazione e tematizzazione da parte di Minkowski, si può riscontrare, nonostante distanze e discordanze, che la risonanza corrisponda all’accadere di una vibrazione: una presenza invisibile, la cui possibilità di essere percepita è in grado di proiettare in un orizzonte altro. C’è un’epoca che è quella della dimenticanza dell’essere, del rimanere assente, l’epoca di un rifiuto: la risonanza può svolgere un ruolo fondamentale nel faticoso ed a volte quasi eroico itinerario esistenziale dell’acquisizione di consapevolezza verso tale stato di cose. Lo sforzo che alberga nel tentativo di ascoltare l’eco di questa risonanza-vibrazione, o quantomeno di udire il suo suggerimento, il suo trasmetterci e affidarci alcuni segni della suo sopravvenire, è lo stesso che spinge verso la necessità di una inesausta ricerca. È un risuonare di tutto un mondo, di tutta una storia (la propria storia), il presagio di un collasso, che possa al contempo aprire ad una nuova architettura. Questa dinamica, questo processo, come vedremo, richiama la considerazione e costituzione, unitaria e al tempo stesso plurale, di un ambiente, nella cui prospettiva ogni fenomeno non è più fisico di quanto non sia psichico. Risonanza può essere il vibrare del suono percepito dal corpo, così come l’effondersi eclatante di un evento – che accade, si impone, si allarga. Siamo cioè di fronte al prospettarsi di una cosmologia: una attitudine verso le proprietà vitali del tutto, dell’universo stesso. Siamo alla cesura epocale di una nuova invenzione (proprio come accade nella proposta dei Contributi di Heidegger): il vibrare e il risuonare dischiudono la propensione verso una più estesa idea di atmosfera da parte dell’organismo-Esserci (il nostro soggetto-individuo). Atmosfera come riecheggiare penetrante che, in quanto fende, al contempo fonde l’esserci-mondo in un unico e solo tutto. Un effetto similare al riecheggiare di una voce, che – nell’essere voce muta di significati precisi – è misteriosamente limpida e chiara nel suo emanare direzioni e aperture. È il grande potere di una risonanza come fonte vitale, come emanatività, scaturigine di una trama complessiva, un tutto immenso e vivente, sconvolgente ma determinante nella sua possibilità di essere intarsio, mosaico, da cui cominciare e da far di continuo ricominciare.

L’anklang heideggeriana insegna dunque che, nell’epoca dell’assenza e del rifiuto, l’unica possibilità per proseguire il proprio itinerario è quella di tendere l’orecchio, di prestare attenzione, di lasciarsi attraversare. L’unica possibilità di avanzamento è quella di percepire la risonanza, di volgere l’attenzione alla sua eco, al suo presentarsi e manifestarsi anche in un’epoca di assenza totale (ad esempio nelle forme di una manifestazione sintomatica). Il nostro terreno di gioco si fa qui scivoloso, poiché stiamo continuando a parlare di qualcosa che è assente nella presenza e che è presente quando è assente: ovvero, uno spettro contenuto in una presenza e una presenza la cui eco sappiamo ascoltare anche nel momento della sua assenza. È un gioco di parole, è forse una contraddizione, una aporia? Si tratta di due processi opposti, oppure dello stesso processo? La risposta è che si tratta di un movimento in realtà molto simile; stiamo raccontando di un meccanismo similare: il fantasma si trasforma in presenza nel momento in cui si compie l’opera; l’opera compiuta, la compiutezza della voce-opera, incarna contemporaneamente lo spettro; l’opera risuona dei suoi fantasmi; si riconosce in quanto se stessa grazie alla presenza dei suoi elementi pre-esistenti; allo stesso modo l’essere-traccia, l’essere-voce, fa sentire la sua eco, la sua risonanza anche nel momento del vuoto, della dimenticanza, proprio per imporsi al soggetto e costituirsi come opera. In verità, se potesse esistere un ordine cronologico tra i due fenomeni, esso sarebbe invertito: dapprima la presenza nell’assenza, la risonanza nell’epoca della dimenticanza, l’eco interiore nel momento del vuoto; in seguito l’assenza nella presenza, il fantasma coagulatosi nell’opera, lo spettro incarnato nella e dalla voce-monumento.

L’anklang così tematizzata non sarebbe nient’altro che uno dei momenti di vibrazione-risonanza della voce stessa all’interno del soggetto. Il vibrare-risuonare interiore della voce fungerebbe da presenza nell’epoca dell’assenza, da rammemorazione nell’epoca della dimenticanza, da rimbombo nello spazio del vuoto assoluto. In tal senso, è proprio nel vuoto che la voce può risuonare meglio, non per forza nel senso della sua chiarezza ma almeno nel senso del suo non poter essere ignorata. È proprio nell’assenza e nel vuoto che la voce può farsi risonanza, quindi rammemorazione, quindi di nuovo presenza. La propriocezione della voce-risonanza è così una sorta di provocazione: una vera e propria pro-vocazione, una chiamata per uno scopo, una invocazione e una preghiera rivolta in una direzione diversa da quella attuale (sta al soggetto la comprensione di quale). Percepire la risonanza significa accorgersi di un dispositivo spontaneo che tenta di coinvolgere, di involvere, di invocarci per, al fine di. Per un fine, uno scopo, un obiettivo. Risonanza è vocare-pro nel senso di una invocazione per, ai fini di qualcos’altro, per raggiungere una destinazione, un télos.

Si diceva che il concetto della risonanza, qui riletto come voce che risuona, come vociferazione, come propagarsi della voce interiore, come fenomeno di consistenza ibrida, a metà tra il fisico e lo psichico, tra il materiale e l’immateriale, tra la presenza e l’assenza, si trova anche nella teorizzazione di Minkowski[li]. Ciò consente di estendere il campo alla nozione già introdotta e più ampia di ambiente. Per portare altri esempi minimi, risonanza può essere la particolarità del vibrare di uno strumento musicale e del diffondersi delle sue onde sonore in uno spazio, ma può anche essere quella di un caso eclatante, del quale si dice che abbia avuto una grande risonanza (ad esempio, a proposito di un gesto ammirevole, si può dire che esso abbia risonanza presso una moltitudine che ne discute). Minkowski allora segnala la risonanza come fenomeno che non è più semplicemente psicologico ma cosmologico: non si riferisce ad un fenomeno solo acustico o solo soggettivo, ma a una delle proprietà dell’universo, anzi una proprietà vitale e fondamentale.

6. L’ambiente e i suoi corpi

Alla luce delle considerazioni sinora svolte, anklang, allora, va intesa non solo come risonanza interiore, ma come macro-ambiente ontologico in grado di risuonare: attraverso le considerazioni di Gens, potremmo anche chiamarlo – come già accennato – atmosfera[lii]. Non siamo nel metafisico, né nel mistico, siamo nel virtuale, per come lo intenderebbe la fenomenologia. Utilizzando la musica come metafora, Minkowski scrive:

«La risonanza è (…) qualcosa di assai più primitivo della contrapposizione tra l’io e il mondo, quale la intende di solito la psicologia. (…) Una melodia, una sinfonia o perfino un semplice suono, soprattutto quando è grave e profondo, si prolungano in noi, penetrano nei recessi più intimi del nostro essere, risuonano, riecheggiano realmente in noi, come accade pure in un moto di simpatia. Non si tratta chiaramente di una seconda melodia che, in un modo o nell’altro, verrebbe a duplicare la prima: si tratta sempre della stessa melodia, che riempie di suoni tutto l’ambiente circostante – un ambiente che essa stessa delimita e forma con la propria risonanza, penetrando al tempo stesso in noi – e ci porta via con sé, noi e l’ambiente, fondendoci in un solo tutto, melodioso e risonante»[liii].

Se fosse necessario, sarebbe facile disporre su questo tema anche di conferme scientifiche, nel senso sia fisico-acustico che puramente fisiologico: sia l’acustica che la fisiologia dell’esecuzione strumentale attestano che le vibrazioni risonanti di un corpo elastico sonoro (strumento musicale) si prolungano sia nel corpo umano di esse attivatore (il musicista), sia nello spazio circostante e quindi negli altri corpi (gli ascoltatori).

Torniamo alle illuminanti parole di Minkowski appena citate. Con tale ampiezza di vedute, siamo dinanzi ad una risonanza come voce che si apre ad una prospettiva cosmico-ambientale, anzi antropo-cosmica, in cui l’uno è sempre considerato immerso nel tutto, in cui l’io è sempre visto come calato nel mondo. Allora in questo senso una filosofia della voce va intesa come una filosofia delle voci. Il mondo è pieno di voci: gli strumenti musicali certo hanno una voce sonora (contraddistinta dalla diversità dei timbri); ma, più in generale, i soggetti umani hanno una voce, unica, caratteristica, inconfondibile, inequivocabile. La voce, dunque, è uno strumento, caratterizzato da inequivocabilità. Cosa significa questa affermazione? Che lo strumento, in senso astratto e non come strumento musicale, non è solo un instrument, ma può essere pensato come tool, ossia come mezzo, come dispositivo, attraverso cui produrre appunto una voce (nel senso della voce-opera). Andando cioè oltre l’effettività foniatrica e timbrica della voce come elemento acustico, sonoro, musicale, si può dire che tutti gli strumenti hanno voci e risuonano. Ogni espressione, ogni forma espressiva, ogni costrutto, ogni architettura, possiede voce ed è essa stessa deposito-costituzione di voce. Se il soggetto possiede per natura la capacità di produrre una voce-opera, se la voce in sé e per sé può essere pensata come strumento-dispositivo, essa sarà allora sempre inequivocabile. Non è mai possibile scambiare una voce per un’altra voce; non è mai possibile equiparare le diverse vocalità, non è mai possibile ritenere come equiparabili diverse vociferazioni. Non può per natura esistere dunque una equi-vocabilità; la vocabilità sarà quindi sempre in-equa, ineguale, diversificata. La diversificazione delle vociferazioni corrisponde all’unicità di ogni soggetto, del suo cammino esistenziale, della sua progettualità, e – come conseguenza di tutto questo – della sua vocabilità, ossia della sua potenzialità espressivo-produttiva.

Si è voluto dire fin qui: la voce-opera, prodotto della vocabilità come possibilità espressiva, risuona sempre in quanto soggettività soggettivantesi e intramondana (cioè sempre calata in un mondo, nel suo proprio-mondo). Ogni vocabilità, quindi, ha sempre, costitutivamente, a che fare con l’ambiente in cui si produce, in cui agisce e si agita: è per questo che Minkowski, a proposito della questione della risonanza, afferma che questo fenomeno va messo in relazione con la nozione di ambiente, idea fondamentale del suo tentativo di dar vita ad una sorta di psico-antropo-cosmologia. Si tratta non tanto della costruzione di un sistema, piuttosto di una illustrazione, del suggerimento di uno stato di cose, di una modalità di funzionamento, che egli chiama «trama complessiva della vita»[liv] o «trama complessiva del cosmo»[lv]. Trama come tessuto, come intarsio, come stoffa, come crocevia, quindi come edificio, come architettura, composta da materiale fisico e materiale psichico al contempo.

Scrive ancora Minkowski: «L’ambiente non deve essere confuso con quello che, parlando di percezioni, definiamo il mondo esterno, e dunque non va scomposto in elementi. Va preso semmai come un tutto immenso e vivente (…). All’inizio, l’ambiente è (…) una sorta di oceano in movimento. È il divenire in quanto tale. Ed è da questo divenire che la personalità umana si stacca, per emergere e affermarsi nei suoi confronti»[lvi].

Siamo adesso al tema della separazione. Minkowski chiama questa automatica necessità di staccarsi ed emergere «bisogno elementare»[lvii]: il bisogno innato e impellente, automatico e irrespingibile di individuarsi, di staccarsi dall’ambiente ed emergere da esso quale corpo individuato. L’«affermarsi» nei confronti dell’ambiente contenente tutti i suoi altri corpi corrisponde all’affermazione dell’individuazione come risultato e come prodotto della soggettivazione in atto. Gens commenta a proposito di questo «bisogno elementare» che esso «non riguarda la nostra relazione alla natura in generale, ma la relazione agli altri corpi, i corpi che ci attendiamo e speriamo di vedere e che viceversa attendono di essere visti; esso dice qualcosa della nostra corporeità tra gli altri corpi, della corporeità che chiede di essere restituita in un essere intercorporeo»[lviii]. Dunque, questo movimento di autonomizzazione separatista non è tanto nei confronti dell’ambiente esterno e circostante in cui si è immersi, il divenire oceanico in movimento in cui si nuota, quanto nei confronti degli altri corpi contenuti in questo divenire esperienziale. Questo è un passaggio cruciale del nostro ragionamento: il bisogno di emergenza individuale è vissuto come urgenza (come emergenza, appunto) in quanto relazionato al rapporto con gli altri corpi. Eppure, sono quegli stessi corpi che «ci attendiamo e speriamo di vedere e che viceversa attendono di essere visti»[lix]; dunque da un lato c’è il bisogno di staccarsi da essi, di autonomizzarsi, di individualizzarsi, ossia di differenziarsi dagli altri corpi, e dall’altro vi è uno speculare eppure diverso bisogno di con-vivere con quegli altri-corpi. E se tutti quegli altri corpi attendono di essere visti, significa che anche noi, se visti da un punto di vista altrui e non dal nostro, siamo un corpo che attende di essere visto («Voglio essere visto» implica che mi faccio notare dagli altri, ma sono pur sempre gli altri a veder-mi), spiegandosi così la doppia necessità di separarsi e unirsi, potremmo dire: di separarsi ma non disunirsi. Non si tratta allora, a ben vedere, di un vero e proprio concetto di separazione; giacché la nostra corporeità «chiede di essere restituita in un essere intercorporeo», si tratterebbe piuttosto del tema della intercorporeità.

La concezione fredda e impersonale, quasi da laboratorio, di corpo, ben riassume tutti i modi di dire io e tutte le difficoltà che questa pluralità semantico-concettuale comporta (soggetto, individuo, Esserci etc.): accade dunque, semplicemente, che i corpi si separano (si staccano, si individuano, emergono), e il loro processo individuale e particolare di separazione si trasforma nel gioco collettivo e generale dell’intercorporeità.

Eppure, nemmeno tale definizione impersonale di corpo è in grado di rendere appieno il senso della questione: quando Gens parla di corpo ragiona infatti sempre in relazione al concetto di pensiero del corpo[lx], intendendo il corpo, quindi, sempre come entità psichico-fisica composita e ibrida. Intercorporeità significa allora in tal senso vera e propria relazione transindividuale, ossia intersoggettività. Un concetto già dotato di una sua storicità, eppure sempre profondamente vivo. Nel pensiero di Husserl, la soggettività viene ricondotta non ad una corporeità individualizzante e solipsistica, non ad una pluralità disconnessa di singoli soggetti isolati, ma ad una intersoggettività originaria[lxi].

Dicendo allora intercorporeità-intersoggettività, dicendo allora corpo come entità psichico-fisica composita e ibrida, diciamo voce in grado di dotarsi di un corpo, di riscoprirsi corpo. La voce, nei processi di espulsione-espressione, di invenzione, di scrittura, di delirio creativo, si dota di un corpo: il movimento della creazione, il movimento del farsi-opera (eventualmente: il gesto estetico), è proprio quello del dare corpo ai propri residui, di trasformare il lògos in praxis. Atto, prassi, che non è mai solo traduzione meccanica, ma ha sempre profonda funzione – come si diceva – di trasfigurazione, di trascrizione ri-creativa, di potenziamento ri-significante. Quello che si potrebbe chiamare atto della verbalizzazione (il prendere corpo della voce) è un gesto dal potente valore (auto)maieutico: ha il potere di trasformare il pensiero, possiede il potere del nuovo e della generatività, della generatività creatrice.

7. Conclusione

La complessità del farsi-opera, l’angoscia solitaria che sempre è connaturata alla generatività creatrice (gesto estetico), può forse allora mitigarsi, sublimarsi, sciogliersi, nel confronto con il suo accoglimento nel mondo esterno, nel naturale prosieguo del farsi-corpo-tra-corpi (gesto etico). Farsi-opera deve e può coincidere con il vivere in una dimensione intersoggettiva. Ecco la domanda lasciata aperta supra: scegliere di operare esteticamente può coincidere con l’adempiere fino in fondo un compito etico? La situazionalità della condivisione dell’opera e della sua apertura al mondo può costituirsi carattere di eticità dell’opera stessa, della voce che si compie, che – compiendosi – incontra l’altro, l’altro da cui si separa per autorealizzarsi ma da cui non si disunisce per permetter-si di esistere?

Nell’innervazione tra il separarsi ma non disunirsi dagli altri corpi si apre lo snodo che consente una possibilità di felice esito del confronto tra l’io-corpo-pensante e gli altri-corpi-pensanti. La voce compiuta, come messa-in-forma entro i parametri architettonici di un’opera – si è detto – si configura come gesto etico autofondativo (etico in quanto sommo bene per il soggetto, che salvando se stesso ristruttura il proprio esser-soggetto) e al contempo come preludio ad un’etica transcorporea e transindividuale, in quanto si apre ad un possibile con-vivere. Solo nella condivisione del sé in quanto voce-opera, l’io-corpo-pensante si scopre corpo-tra-corpi, e nel far ciò scopre che gli altri-corpi sono altri-corpi-pensanti. Siamo al cuore del nesso sartriano tra in-sé e per-sé[lxii]. L’inconscio acustico come traccia primaria del confronto tra gli altri-pensanti e l’io-corpo, dopo un lungo itinerario risolto e ribaltato in voce della compiutezza (abbiamo inteso in questo lavoro il gesto dell’opera come gesto della soggettivazione), si trova ad essere ri-cristallizzato. Nello scoprire gli altri-corpi come altri-corpi-pensanti, scopriamo che il nostro io-corpo-pensante viene pensato solo come io-corpo da quegli stessi, e a ciò ridotto. Pur trascendendo l’opera se stessa per giungere oltre – all’altro -, come può configurarsi come produttrice di bene se l’altro mi fissa ogni volta come io-corpo, annullando, o quantomeno ridimensionando, il mio io-corpo-pensante?

Rispondiamo, in modo eretico e provocatorio, con un invito a cancellare la propria storia. La suggestione proviene da Castaneda[lxiii]; una suggestione letteraria dal profondo valore teoretico. Cancellare la storia personale ha a che fare con il fantomatico, ciò che sfugge misteriosamente ad ogni definizione, l’essere in un modo ma anche in un altro, l’essere in una forma ma al contempo abitare altri luoghi. È una personificazione dell’altrove. È al contempo una immissione volontaria in un labirinto ontologico.

Castaneda affida alla creatura-metafora Don Juan l’illustrazione mitico-filosofica dell’itinerario di soggettivazione della voce già dal primo volume degli insegnamenti (in cui tratteggia efficacemente il cammino esistenziale in quattro tappe: paura, lucidità, potere, vecchiaia[lxiv]). L’entità Don Juan sembra una voce assistenziale, una voce che risuona, incarna la rammemorazione dell’essere nell’epoca della dimenticanza. Il consiglio di Don Juan è quello di cancellare la storia personale, per mantenersi fluidi, per poter essere in più forme al contempo e per questo riuscire ad essere veramente un io-corpo-pensante senza forme pre-formate o etero-formate. Un invito, sembrerebbe, a ri-strutturare il proprio vissuto, a soggettivare il proprio inconscio acustico grazie alla possibilità di far sentire la propria voce (la voce da devolvere); voce che incarna l’opera, voce che si incarna in un corpo che ha a che fare con altri corpi, mantenendosi libero di strutturare plasticamente le proprie metamorfosi. Siamo al cuore della metafora del guerriero di Castaneda, il guerriero che lotta per l’autenticità: cancellare la storia personale è l’arte di essere a portata di mano e restare fuori portata, di essere del tutto presenti e allo stesso tempo fare spazio. La nebbia che creiamo intorno a noi non è fatta per mentire, né per ingannare, non è fatta per risuonare di malafede o inautenticità, ma per proteggere la libertà di fluire e di trasfigurarsi – continuamente -, di essere e non essere, di apparire e scomparire. È una strategia dell’anonimato; è una strategia dell’impersonale; impersonale che, negando, afferma; che, sottraendo, aggiunge; che, succhiando via strati di personalizzazione e rendendo impersonali, rende possibile la non-cristallizzazione e dunque la metamorfosi.


[i] Cfr. G. Deleuze, Differenza e ripetizione, tr. it. di G. Gugliemi, Cortina, 1997; J. Derrida, Gli spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale, tr. it. di G. Chiurazzi, Cortina, 1994; J. Derrida, La voce e il fenomeno. Introduzione al problema del segno nella fenomenologia di Husserl, tr. it. di G. Dalmasso, Jaca Book, 2010; J. Derrida, Psyché. Invenzione dell’altro, tr. it. di R. Balzarotti, Jaca Book, 2008.

[ii] G. Deleuze, Critica e clinica, tr. it. di A. Panaro, Cortina, 1996.

[iii] Cfr. J. Derrida, La scrittura e la differenza, a c. di G. Vattimo, Einaudi, 2002.

[iv] Cfr. G. Deleuze, Critica e clinica, cit.

[v] Cfr. J. Derrida, La voce e il fenomeno. Introduzione al problema del segno nella fenomenologia di Husserl, cit.; AA. VV., Voce. Un incontro tra filosofia e psicoanalisi, a c. di M. Bonazzi – C. Serra – S. Vizzardelli, Mimesis, 2018.

[vi] T. W. Adorno, Versuch über Wagner, 1952, in T. W. Adorno, Wagner. Mahler. Due studi, tr. it. di M. Bortolotto, Einaudi, 1966, p. 40.

[vii] Cfr. H. von Kleist, Il teatro delle marionette, tr. it. di L. Traverso, Il Melangolo, 2022; L. De Donato, Il fascino dell’accadere. Grazia e charme nel pensiero di Jankélévitch, in Quaderni di Inschibboleth, n. 15, 2021.

[viii] Cfr. A. Campo, Nachträglichkeit: il contributo della psicoanalisi alla definizione di una filosofia del processo, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Roma Tre, anno accademico 2014/2015.

[ix] Nel senso di una seconda nascita, di una seconda ingenuità (intese in quell’ampio spettro che va da Ricoeur a Putnam).

[x] B. Russell, La conquista della felicità, tr. it. di G. Pozzo Galeazzi, Tea, 2003, p. 198.

[xi] Ibidem.

[xii] Cfr. L. De Donato, Dal caos del mondo all’ordine dell’arte. La filosofia della musica di Schopenhauer, in Informazione Filosofica, n. 3, 2021.

[xiii] Cfr. V. Villa, Una teoria pragmaticamente orientata dell’interpretazione giuridica, Giappichelli, 2012, pp. 27-50-53-54-58-59-60.

[xiv] Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, tr. it. di P. Chiodi e F. Volpi, Longanesi, 2005.

[xv] Cfr. E. Toffoletto, Estetica, politica e psicoanalisi. L’ontologia dell’arte come discorso sullo spettrale-fantasmatico, intervento letto in occasione del corso di Ontologia dell’arte tenuto da Lorenzo De Donato, Università Unitre di Milano, 31-3-2022.

[xvi] Cfr. S. Freud, L’Io e l’Es, tr. it. di C. Musatti, Bollati Boringhieri, 1985; S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, tr. it. di M. Tonin Dogana e E. Sagittario, Bollati Boringhieri, 1968.

[xvii] Cfr. M. Dolar, La voce del Padrone. Una teoria della voce tra arte, politica e psicoanalisi, a c. di L. F. Clemente, Orthotes, 2014.

[xviii] Come poeticamente evoca sin dal titolo P. Salinas, La voce a te dovuta, a c. di E. Scoles, Einaudi, 1979.

[xix] Cfr. M. Moschini, Noesi: in traccia della verità, intervento letto in occasione della Scuola Estiva Internazionale di Alta Formazione Filosofica InSchibboleth, Castello dei Doria di Castelsardo (Sardegna, Italia), 29-6-2022.

[xx] Ibidem.

[xxi] Cfr. S. Kierkegaard, La ripresa. Tentativo di psicologia sperimentale di Constantin Constantius, a c. di A. Zucconi, SE, 2018.

[xxii] Cfr. C. Waller, On Nachträglichkeit, in L. Clifton, Invention in the real: papers of the Freudian School of Melbourne, Karnac, vol. 24, 2012.

[xxiii] Cfr. J. Gottschall, Il lato oscuro delle storie. Come lo storytelling cementa le società e talvolta le distrugge, tr. it. di G. Olivero, Bollati Boringhieri, 2022.

[xxiv] Cfr. B. Chervet, L’après-coup. La tentative d’inscrire ce qui tend à disparaître, in Revue française de psychanalyse, 5, vol. 73, 2009.

[xxv] Cfr. S. Kierkegaard, La ripresa. Tentativo di psicologia sperimentale di Constantin Constantius, a c. di A. Zucconi, SE, 2018, passim.

[xxvi] Cfr. M. Recalcati, Convertire la pulsione? Sul processo di soggettivazione nell’esperienza dell’analisi, a c. di C. Accardi e A. Panico, Paginaotto, 2020.

[xxvii] Cfr. A. C. Danto, La trasfigurazione del banale. Una filosofia dell’arte, tr. it. di S. Velotti, Laterza, 2008.

[xxviii] Cfr. P. Ricoeur, Della interpretazione. Saggio su Freud, tr. it. di E. Renzi, il Saggiatore, 2002; P. Ricoeur, Esistenza ed ermeneutica, in P. Ricoeur, Il conflitto delle interpretazioni, tr. it. di R. Balzarotti – F. Botturi – G. Colombo, Jaca Book, 1999; V. Busacchi, Pulsione e significato. La psicoanalisi di Freud nella filosofia di Paul Ricoeur, Unicopli, 2010; T. Valentini, “Archeologia del soggetto” ed “ermeneutica del sé”. Paul Ricoeur lettore e critico di Freud, in Areté. International Journal of Philosophy, Human and Social Sciences, vol. 1, 2016.

[xxix] P. Ricoeur, Della interpretazione. Saggio su Freud, cit., p. 567.

[xxx] Cfr. M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, tr. it. di I. De Gennaro e G. Zaccaria, Marinotti, 2000.

[xxxi] La heideggeriana chiamata della coscienza. Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit.

[xxxii] Cfr. AA.VV., Forme dell’après-coup, a c. di M. Balsamo, Franco Angeli, 2009; J. Bernat, Psyché n’est qu’après-coup, in Cahiers d’études germaniques, n. 57 (2), 2009; D. Birksted-Breen, Time and après-coup, in International Journal of Psychoanalysis, n. 8, 2003; W. Eickhoff, On nachträglichkeit: the modernity of an old concept, in International Journal of Psychoanalysis, n. 87, 2006; R. Künstilicher, Nachträglichkeit: the intermediary of an unassimilated impression and experience, in Scandinavian Psychoanalitic Review, n. 17, 1994.

[xxxiii] J.-P. Sartre, Baudelaire, tr. it. di J. Darca, Mondadori, 2006; J.-P. Sartre, L’idiota della famiglia. Gustave Flaubert dal 1821 al 1857, tr. it. di C. Pavolini, Il Saggiatore, 2019; J.-P. Sartre, Santo Genet, commediante e martire, tr. it. di C. Pavolini, Il Saggiatore, 2017.

[xxxiv] B. Russell, La conquista della felicità, cit., p. 198.

[xxxv] Cfr. L. De Donato, Dire l’ineffabile. La filosofia della musica di Jankélévitch e la questione ebraica, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Milano, anno accademico 2017/2018.

[xxxvi] Cfr. J. Derrida, Gli spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale, cit., passim.

[xxxvii] Cfr. M. Fisher, Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti, tr. it. di V. Perna, Minimum Fax, 2019.

[xxxviii] Cfr. J. Derrida, Gli spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale, cit.

[xxxix] Come intendono la nozione di virtuale Jankélévitch e la fenomenologia in generale. Cfr. V. Jankélévitch, Filosofia prima. Introduzione a una filosofia del «quasi», tr. it. di F. Fogliotti, Moretti e Vitali, 2020.

[xl] P. Ricoeur, De l’interprétation. Essai sur Freud, Seuil, 1965, p. 465 (trad. nostra).

[xli] Cfr. M. Fisher, Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti, cit.

[xlii] S. Freud, Das kunstwissenschaftliche Interesse, in S. Freud, L’interesse per la psicoanalisi (1913), originariamente pubblicato sulla rivista Scientia di Bologna; ora in S. Freud, Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, tr. it. di E. Fachinelli, Bollati Boringhieri, 1991, p. 180.

[xliii] Ibidem.

[xliv] Ivi, p. 181.

[xlv] J.-F. Lyotard, L’approche psychanalytique (de l’art), in J.-F. Lyotard, Tendances principales de la recherche dans les sciences sociales et humaines, Unesco-Mouton, 1978, p. 687 (trad. nostra).

[xlvi] J.-F. Lyotard, Tendances principales de la recherche dans les sciences sociales et humaines, cit., p. 763 (trad. nostra).

[xlvii] Cfr. I. Matte Blanco, L’inconscio come insiemi infiniti. Saggio sulla bi-logica, tr. it. di P. Bria, Einaudi, 2000.

[xlviii] In Essere e tempo il termine ricorre solo due volte nelle glosse a margine; successivamente ritorna con un ruolo molto importante in M. Heidegger, Contributi alla filosofia. Dall’evento, a c. di F. W. von Herrmann e F. Volpi, Adelphi, 2007.

[xlix] In E. Minkowski, Verso una cosmologia. Frammenti filosofici, tr. it. di D. Tarizzo, Einaudi, 2005, in part. Capitolo 9, Risuonare, pp. 84-92.

[l] Quando, ad un livello sia personale-esistenziale che strettamente meditativo-teoretico, Heidegger rivoluziona la sua Weltanschauung (codificata in Essere e tempo), dando vita al percorso che costituirà poi i Contributi. Cfr. U. Galimberti, Heidegger e il nuovo inizio. Il pensiero al tramonto dell’Occidente, Feltrinelli, 2020.

[li] Cfr. E. Minkowski, Verso una cosmologia. Frammenti filosofici, cit.

[lii] Cfr. J.-C. Gens, Il pensiero del corpo nell’ambito dell’antropocosmismo in Oriente e in Occidente, in Critical Hermeneutics. Biannual International Journal of Philosophy, 5 (2), 2021.

[liii] E. Minkowski, Verso una cosmologia. Frammenti filosofici, cit., p. 89.

[liv] Ivi, p. 82.

[lv] Ibidem.

[lvi] E. Minkowski, Verso una cosmologia. Frammenti filosofici, cit., p. 170.

[lvii] Ivi, p. 219.

[lviii] J.-C. Gens, Il pensiero del corpo nell’ambito dell’antropocosmismo in Oriente e in Occidente, cit., p. 140.

[lix] Ibidem.

[lx] Cfr. J.-C. Gens, Il pensiero del corpo nell’ambito dell’antropocosmismo in Oriente e in Occidente, cit., passim.

[lxi] Cfr. E. Husserl, Meditazioni cartesiane, tr. it. di A. Altobrando, Orthotes, 2017, sezione V.

[lxii] Cfr. J.-P. Sartre, L’essere e il nulla. La condizione umana secondo l’esistenzialismo, tr. it. di G. Del Bo – F. Fergnani – M. Lazzari, Il Saggiatore, 2002.

[lxiii] Cfr. C. Castaneda, Viaggio a Ixtlan. Le lezioni di don Juan, tr. it. di G. Signori, Rizzoli, 2000; C. Castaneda, A scuola dallo stregone. Una via yaqui alla conoscenza, tr. it. di F. Cardelli, Astrolabio, 1970.

[lxiv] I quattro nemici naturali di cui si parla in C. Castaneda, A scuola dallo stregone. Una via yaqui alla conoscenza, cit., p. 67 e ss.

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