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Rielaborazione della relazione presentata alla Giornata di studio presso Istituto Austriaco di Cultura il 16 marzo 2019. Titolo del convegno era “Freud e Jung: apparenti similitudini degli inizi, sostanziali divergenze e attuali oltrepassamenti”.
Prologo
Ho scelto di dedicare questo mio intervento al rapporto così intricato tra la parola e l’immagine rispetto al modo di considerare la psiche e il suo funzionamento. Mi focalizzerò sulle origini della psicoanalisi cercando di indagare il ruolo che parola e immagine rivestono negli anni della “scoperta” della psiche “psicoanalitica”.
Credo che sia giunto il momento di affermare con convinzione che è superata la consueta distinzione per cui la psicoanalisi di Freud sarebbe di “parole”, la talking cure per eccellenza, e che Jung, da parte sua, si dedicherebbe ad una psicoterapia per immagini. Si tratterebbe di una divisione che sancirebbe una divaricazione insanabile tra due modi di affrontare il processo terapeutico ma che, ancor più, identificherebbe due modi differenti e divergenti di considerare la psiche nella sua totalità comprensiva dell’inconscio e del suo funzionamento.
È proprio vero questo? È da sottoscrivere nella sua radicalità di posizioni?
Un confronto diretto tra Freud e Jung ci aiuta a ricordare che i seguaci di Freud e di Jung non coincidono esattamente con i rispettivi maestri. Ritornare quindi alle fonti del sapere psicoanalitico non vuole essere una nostalgia del tempo passato quanto un ritornare alla freschezza delle origini per attingerne, attraverso una ulteriore lettura, linfa vitale.
Parliamo dunque di immagini in relazione con la parola e parliamo di parole “aggrappate” alle immagini, immergendo il pensiero dei due pionieri nell’atmosfera culturale dell’epoca in cui vivevano, un’atmosfera culturale assai differente tra Vienna e Zurigo, due atmosfere culturali che erano tuttavia allineate nella critica di fondo alla tradizione e al sapere costituito.
La riflessione che oggi pongo all’attenzione di tutti parte dal presupposto che le sostanziali divergenze che fanno parte del titolo di questa giornata, non le troveremo separando le parole dalle immagini. Sostanziali divergenze tra Freud e Jung forse continuano ad esserci ma le dobbiamo cercare altrove, perché nella loro ricerca sulla psiche, la sua realtà e la sua verità, sia Freud che Jung hanno incontrato tanto la parola quanto l’immagine e con entrambe si sono confrontati.
Freud e le prime mosse

L’idea di un Freud, semplice “ascoltatore” asettico di pazienti in un setting anonimo e sterilizzato fa parte di un immaginario “parziale”, che coglie soltanto un aspetto, e neppure troppo “sostanziale”, dello “scopritore” della psicoanalisi. Per comprendere il rapporto profondo di Freud con le immagini e non solo con la parola, basti pensare all’arredamento del suo studio, tutt’altro che neutro e minimalista. Freud aveva una passione travolgente per l’arte antica e fu un grande collezionista di opere greche, romane, egizie, assire, babilonesi e così via; nella sua vita raccolse più di duemila statuette, alcune delle quali teneva nel suo studio; lo stesso divano su cui si stendevano le pazienti e i pazienti era ricoperto di un tappeto orientale molto decorato e poco “sterilizzato”.
La sua collezione di arte antica iniziò intorno al 1896, lo stesso anno in cui comparve per la prima volta il termine psicoanalisi, e circa dieci anni dopo la morte del padre. Vi è una contemporaneità forse non del tutto casuale (Chianese, Fontana 2010, pp. 102 e sgg) tra una non terminata elaborazione del lutto, la sua incursione nello spazio immaginativo “invisibile” dell’interiorità psichica e l’inizio del collezionismo.
Che il gran numero di statuette antiche costituisse il compenso dell’assenza?
Freud, che iniziò come neuroanatomista nel laboratorio di von Brücke, studiava l’istologia del sistema nervoso di pesci e crostacei, partecipando alla ricerca sulla definizione e caratterizzazione dei neuroni. Appassionato del metodo scientifico, sentì l’esigenza di tradurre in “immagini” le sue ricerche: fece così molti disegni raffiguranti gangli spinali, l’origine delle radici nervose, il midollo spinale e così via. Ugualmente nel Progetto del 1895 cercò di immaginare il funzionamento dell’apparato psichico, compreso il meccanismo di difesa primario, e in una lettera a Fliess del 1895 troviamo il disegno di uno schema sessuale.
Fotografie prese dall’autrice dal catalogo della mostra “Du regard à l’écoute”, (Gallimard, Paris 2018)





Dopo questa esperienza Freud andò alla Salpêtrière dove fu introdotto in un mondo di forme e di figure tutto all’opposto dell’approccio precedente: non più schemi, non più astrazioni scientifiche ma corpi, figure vive, intere, un teatro della follia e Freud si confrontò con le immagini dell’isteria, di cui vi erano molte riproduzioni, foto, incisioni, dipinti.



Freud e Vienna
La Vienna di Freud fu il luogo che, anche meglio di tanti altri, impersonò il desiderio di rinnovamento e l’apertura di nuovi orizzonti in tutte le arti. Vienna era una città raffinata e cosmopolìta che vide una rinascita senza eguali, una rinascita che, a differenza di altre rinascite, per esempio l’italiano Rinascimento o l’Aufklärung tedesco, non aveva i tratti di quell’ottimismo incondizionato verso la realtà, la società e il progresso che troviamo negli altri due movimenti culturali.

L’art nouveau sembrava contenere, nella maggior parte dei suoi prodotti, uno strumento di distanza dalle proprie opere e di critica verso se stessa che apriva a rappresentazioni amare, se non proprio nichiliste. Fu un’arte raffinata con l’intento di rompere con la figuratività precedente e con l’esattezza della riproduzione, in nome di una sorta di diritto dell’arte stessa di creare secondo un proprio e specifico linguaggio artistico.
Klimt fu uno fra i primi, seguito da Schiele e Kokokscha, espressioni di un’arte drammaticamente angosciosa; troviamo nei loro tratti pittorici una consapevolezza frutto di severa autoriflessione, per cui al tratto visibile si accompagna la negazione di se stesso, una lucida distanza dal proprio prodotto artistico e una severa autocritica che risulteranno poi estremamente evidenti negli sviluppi artistici successivi.


Marcel Duchamp, fin dai primi anni del ‘900, affermò di voler sostituire la pittura-pittura con la pittura-idea, cioè «riportare la pittura al servizio della mente, escluderla dal suo collegamento retinico».
Come è noto, il periodo a cavallo tra fine Ottocento e primi anni del Novecento offrì un panorama molto importante di rottura con la tradizione in tutte le espressioni artistiche, e in genere culturali, ed è stato in questo milieu socio-culturale che nacque la psicoanalisi: dalla mente di Freud e dal profondo cambiamento di sguardo sulla realtà che riguardò ogni ambito della cultura mitteleuropea.
Non si trattò soltanto della separazione tra le proprie azioni espressive e la riflessione su di esse, della consapevolezza che non un tutto se stesso è sempre racchiuso in ciò che si vede, e neppure solo del tratto pessimistico che vira talvolta verso il nichilismo; non si trattò solo di questo ma ancor più significativo, nella nuova e ricca produzione artistica dell’epoca, fu il nuovo punto di vista che si andava affermando nell’intricato rapporto tra percezione, coscienza e pensiero, un rapporto che andava assumendo una qualità differente che troviamo non solo nelle arti figurative, ma anche nell’architettura, nella musica, nella letteratura e nella poesia e, per quel che maggiormente ci interessa, lo troviamo anche nella psicologia, nella psichiatria, nella filosofia dell’epoca: si assistette ad una profonda trasformazione che ne modificò le rispettive teorie.
Vienna, capitale dell’Impero
Vienna era una città multietnica, in cui si parlavano molte lingue, e altrettanti erano di conseguenza i modi di rapportarsi alla Muttersprache, la “lingua madre”, tanti modi diversi quindi di ricordare quel passato che si immerge nella prima infanzia, una diversità che favorì la nascita di un sapere fondato sulla labilità del senso nella parola, sulla sua relatività (cfr J. Clair 2018, p. 21).
Anche al livello di riflessione sul linguaggio andava progredendo quell’intricata rete di relazioni tra la diversità espressiva e il fondamento non visibile sottostante ma comune, un rapporto che prese talvolta i connotati di relazione tra apparenza e realtà. Così per il filosofo Fritz Mauthner, che visse poco prima di Freud, la lingua rappresentava un sistema ingannatore, uno strumento che impediva agli uomini di conoscersi veramente l’un l’altro per cui parlare rappresentava il tradimento di ciò che gli esseri umani realmente sono.
Freud al tradimento della parola darà un suo preciso significato, un senso nascosto e veritiero, una verità che non vogliamo vedere. E anche la parola di Freud, pur consegnata intenzionalmente al discorso scientifico, lascia intendere che è dotata di una forza intrinseca che porta vigorosamente indietro alle prime parole dell’infanzia e mostra anche il trascendimento dell’essere umano, una parola che trascende se stessa (ivi, pp. 22 e sgg.).
Nella cultura dell’epoca si stava delineando una significativa disconnessione tra il piano dell’apparenza e quello della realtà: l’apparenza non riusciva più a contenere il piano figurativo del reale che restava in secondo piano e spingeva per trovare una propria configurazione.
E in questo movimento tra apparenza e realtà, che stava cambiando radicalmente la connotazione della cultura, tanto le immagini quanto la parola si trovavano ugualmente coinvolte: dobbiamo spostare la nostra attenzione da una netta separazione tra immagine e parola alla considerazione che il piano fenomenico tanto della parola quanto dell’immagine – il loro manifestarsi – contiene un nuovo movimento che porta a relazioni inedite del piano fenomenico dell’apparenza con il piano nascosto dell’essenza (o realtà).
Così la Vienna Felix, dietro lo scintillio della bella vita, covava il ribollire di quella distruzione che sfociò poi nel conflitto mondiale e nel suo disfacimento come capitale di un Impero.
Zurigo

Pur molto differente dalla Vienna di Freud, anche la Svizzera in cui visse Jung fu una realtà geografica aperta agli influssi provenienti dal resto d’Europa, influssi che presero strade originali anch’esse di grande interesse. Svizzero fu uno dei più grandi artisti del Novecento, quel Paul Klee per il quale la linea del disegno diventò un “elemento figurativo indipendente”, e così risolse la propria espressività artistica seguendo una improvvisazione psichica che si spingeva fino alla rottura del dato naturale: il suo motto non era di rendere il visibile ma di rendere visibile.
Un’arte la sua che, approfondendo le interconnessioni tra visibile e invisibile, ci permette di spingerci ancora oltre nel configurare una psiche autonoma e regolata da un movimento creativo che la caratterizza e la distingue.
Jung e l’arte

Il rapporto di Jung con l’arte fu tiepido, non abbiamo notizie di una particolare attenzione a questa disciplina, pochi erano i libri d’arte presenti nella sua biblioteca (Shamdasani 2010, p. 203). Vi si trovava un catalogo dei disegni del simbolista francese Odilon Redon di cui probabilmente Jung venne a conoscenza nel suo soggiorno a Parigi.

Durante un suo viaggio in Italia, passando per Ravenna, rimase particolarmente colpito dai mosaici delle chiese.
In una conferenza nel 1925 fece un apprezzamento positivo del dipinto di Duchamp Nudo che scende la scala, probabilmente visto precedentemente a New York.

Sappiamo che durante la guerra, vi fu un maggiore contatto tra la scuola di Zurigo e il movimento dadaista svizzero con frequenti scambi tra eventi artistici da un lato, e iniziative di stampo psicologico-psicoanalitico-psichiatrico, dall’altro, (Shamdasani 2010).

Ma nuove forme espressive, di rottura con le rappresentazioni precedenti, le troviamo in Svizzera soprattutto in campo psichiatrico, sia come sapere psichiatrico, sia in quanto applicazione pratica in senso psicoterapeutico. Fra i quattro centri più attivi in Europa: Parigi, Monaco, Zurigo, Vienna, fu Zurigo il più fiorente e più prospero, principalmente per merito delle sperimentazioni e innovazioni di tecnica terapeutica condotte da Bleuler all’Ospedale del Burghölzli insieme al suo brillante allievo Carl GustavJung (Mistura 2005, p. 209 e sgg.). Al livello internazionale erano molto più conosciuti Bleuler e Jung a Zurigo che Freud a Vienna. Consapevole probabilmente della fragilità della sua nuova creatura e della “peste” che avrebbe portato tra la gente, Freud fu sempre restio a gettarla in pasto al mondo ed ebbe sempre un atteggiamento estremamente protettivo anche se fu altrettanto desideroso di far accogliere la psicoanalisi in seno al mondo accademico. Ma fu a Zurigo e non a Vienna che il pensiero psicoanalitico «varcò per la prima volta la soglia di una clinica psichiatrica universitaria di fama internazionale. E fu sempre a Zurigo che ebbe vita la prima rivista di psicoanalisi, lo Jahrbuch für psychoanalytische und psychopathologische Forschungen, a direzione di Bleuler e Freud e con Jung come caporedattore. E sempre a Zurigo si tenne a battesimo la prima Associazione Internazionale di Psicoanalisi che Freud volle che fosse presieduta da Jung» (così Mistura 2005, p. 210).
Nei primi anni del secolo scorso, la psichiatria in Svizzera fu all’avanguardia, Aby Warburg dal 1918 al 1924 trascorse saltuariamente periodi più o meno lunghi nella clinica di Kreutzlingen diretta da Binswanger. E per il Burghölzli passarono nomi di psichiatri illustri quali Karl Abraham, Ludwig Binswanger, Eugene Minkowski, Herman Rorschach, Franz Riklin, Constantin von Monakow, Abraham Brill, Emil Oberholzer.
Il Burghölzli costituì una vera e propria fucina di pensiero sulla malattia mentale e sulla psiche, un intreccio di saperi che rimbalzavano dalla psichiatria alla psicologia e alla filosofia, passando attraverso la neurologia e la fisiologia, e fu proprio in Svizzera che prese forma per mano di Binswanger quell’antropoanalisi che costituì uno dei rami più fecondi della psicopatologia fenomenologica.
Si trattò di un grande rinnovamento psichiatrico che ebbe in Bleuler uno dei suoi artefici più prestigiosi. Centrale nella psichiatria di Bleuler fu il concetto di affettività, vero motore della psiche che ne regolava la dinamica.
Difficile da catturare in una definizione; immateriale e autonoma, nella battaglia che si combatteva tra i Somatiker e gli Psychicher, l’affettività di Bleuler chiudeva la porta alla possibilità di una riduzione completa della psiche al piano somatico, anche se la sua affettività era una formazione complessa che manteneva al suo interno anche evidenti reazioni somatiche.
Ma soprattutto la sua “immaterialità” la allontanava da qualsivoglia sostanzializzazione della malattia e apriva contemporaneamente ad una visione della psiche regolata da relazioni, rapporti tra le singole parti che oggi, con un salto vertiginoso ma non del tutto improprio, definiremmo “complessità”. Bleuler fu tra i primi ad appoggiare la cura psichiatrica ad un “contatto emotivo” specifico e personalizzato tra medico e singolo paziente, contatto emotivo che nel suo tedesco originale suona affektiver Rapport, rapporto affettivo.
Jung in quegli anni era immerso nella rivalutazione dell’affettività di Bleuler, portava avanti il reattivo verbale e gli esperimenti associativi, mantenendo un contatto costante, assiduo e vitale con Freud e la sua psicoanalisi. L’affettività di Bleuler divenne in Jung l’affetto e prese forma così il “complesso a tonalità affettiva”, approdando a una concezione della vita psichica che ha nella complessità, a tutti i livelli, la sua modalità più significativa di esistenza. I complessi sono visibili ma anche invisibili, inconsci ma anche dotati di coscienza, sono ideativi e anche percettivi, appartengono alla sensibilità ma anche all’intellettivo e infine sono reali ma anche immaginativi. Si tratta di una psiche complessa la cui dinamica è assicurata da una sorta di “gioco” tra primo piano e sfondo, un gioco giocato dal protagonista “Affetto”.
Pur completamente dedito al lavoro sperimentale e alla cura dei pazienti, Jung si chiudeva nella sua vita privata dedicandosi al disegno di quelle immagini che si affacciavano nella sua sfera interiore. La prima parte del suo lavoro la troviamo nelle Ricerche sperimentali, la seconda nel Libro rosso.
Quando parliamo di “Ricerche sperimentali” in Jung non dobbiamo tanto avere in mente l’empirismo sensistico e neppure le sperimentazioni di laboratorio: l’approccio sperimentale di Jung è assimilabile a quell’“esperimento mentale” di cui fu sostenitore il fisico Ernst Mach.
Freud, Jung e gli “esperimenti mentali”
Secondo lo scienziato Ernst Mach, sognatori, poeti visionari, costruttori di castelli in aria sono simili allo scienziato, ma i primi combinano nella fantasia circostanze che non si incontrano nella realtà, i secondi restano con il pensiero molto vicini alla realtà. La possibilità di esperimenti mentali sta nella maggiore o minore esattezza della riproduzione involontaria dei fatti nelle rappresentazioni. L’esperimento mentale è un fingere una certa situazione sulla quale si potrà poi apportare un certo numero di modificazioni attraverso un metodo che chiamò della “variazione continua”.
Intendendo quindi questi esperimenti come “esperimenti mentali”, nel senso illustrato da Mach, nel test associativo Jung fa esperimenti con e sulle parole, e compie esperimenti visivi nei disegni contenuti nel Libro Rosso. E, in entrambi i casi, come vedremo, si tratta di fingere nel significato più originario di formare, rappresentare, inventare, immaginare; in entrambi i casi siamo di fronte a parole e immagini che cooperano. È la finzione il piano sperimentale e dell’esperienza.
L’esperimento associativo non si limita a riprodurre coppie di parole isolate ma – ci dice Jung – è uno scambio, una “conversazione” a due (Jung 1909 p. 397).
La parola associativa non ha carattere né coattivo né necessitante ma è una conversazione tra lo sperimentatore e il paziente. Si trova qui il germe di quella che sarà la sua concezione dell’analisi e del ruolo del terapeuta, la sua presenza attiva nell’incontro e la considerazione del setting analitico come un dialogo.
E nel dialogo troviamo una collaborazione di parola e di immagini per sviscerare e tentare di chiarire la realtà psichica e condurla verso una più piena conoscenza.
«le parole sono […] come atti, situazioni e cose in forma abbreviata. Quando presento al soggetto una parola che significa un atto, è come se gli presentassi quell’atto stesso e gli domandassi: ‘Come si comporta Lei a questo riguardo? Cosa ne pensa? Cosa fa in una situazione del genere?’ Se fossi un mago farei apparire nella realtà la situazione corrispondente alla parola stimolo, e vi porrei nel mezzo il soggetto, per poi studiare il suo modo di reagire. […] Visto però che non siamo maghi, dobbiamo accontentarci dei surrogati verbali della realtà, senza tuttavia mai dimenticare che quasi sempre la parola stimolo farà comparire come per magia la situazione che le corrisponde» (Jung 1909, p. 397)
La parola agisce da intermediario tra i fatti e l’immagine che corrisponde loro, crea la finzione sulla quale il medico potrà agire. Ma non sarebbe possibile accedere al piano finzionale senza l’impulso dell’affetto che circola nel rapporto e che implica nel dialogo l’intera personalità dei partecipanti, consentendo così alla parola di accendere l’immagine che come per magia fa comparire la situazione che le corrisponde. È lo scambio affettivo che produce il piano immaginativo senza il quale la realtà psichica sarebbe mutilata. Senza dimenticare che l’affetto ha un doppio volto: passivo nel senso di essere affetto da… e attivo in quanto movimento verso…
E fu attraverso la strada affettiva della “finzione” che i complessi psichici presero la forma di vere e proprie “personificazioni” con cui si poteva entrare in rapporto, instaurando così un dialogo interno tra le differenti parti della psiche. Ed è per questa via che il rapporto tra visibile e invisibile assunse in Jung quel carattere “visionario” che conosciamo.

Così, nelle immagini del Libro Rosso, che sono state viste spesso come un’attività bizzarra, addirittura prodotto di una psicosi, e si è parlato anche di uno sprofondare negli inferi, a ben vedere vi si può scorgere anche un’attenzione rivolta ad una costante ricerca di forma, in un percorso continuamente in fieri. Sono immagini anche belle, realizzate con un tratto fermo e nitido, sono l’espressione migliore per rappresentare contenuti psichici molto forti di grande investimento affettivo.

Le immagini sono accompagnate da scritti in caratteri gotici che riprendono brani biblici, mitologici, letterari, filosofici, riferimenti ad altre religioni ed altre culture, sono testi miniati come in epoca medievale, dove la lettera del capoverso è strettamente articolata intorno ad una figura. Sono immagini che intrecciano sapientemente figure e parole.
Anche Jung è preso nella tenaglia del rinnovamento che a cavallo del secolo si stava producendo nel rapporto tra il visibile e l’invisibile, tra apparenza e verità, tra realtà e non-realtà: parole e immagini ne sono ugualmente implicate in quanto espressioni di contenuti psichici la cui caratterizzazione principale è di essere sostenuti da un affetto.
L’avversione di Jung per l’arte moderna la troviamo negli scritti su Picasso o su Joyce, ma il suo rapporto con l’arte fu molto più articolato e profondo. L’arte autentica doveva essere impersonale e visionaria, realizzando così un vero ponte verso la riva sconosciuta dell’inconscio.
L’arte moderna, con la sua frammentazione del soggetto, la sua astrazione e la disarticolazione di ogni forma, nell’immagine così come nella parola, esprimeva bene la propria epoca, fatta di destrutturazioni e di inganni.

Ma era l’intellettualizzazione che non piaceva a Jung, in quanto, pur descrivendo la frammentazione della realtà, la allontanava, secondo lui, dalla fonte sorgiva dell’inconscio.
Tra percezione e intelletto le immagini rappresentate dall’arte moderna gli sembravano piegare tutte verso l’intelletto, allontanandosi così da quella fonte originaria che le aveva originate. Nell’impossibilità di afferrarla in quanto sempre fuggevole e sfuggente, come l’essenza della vita stessa, l’arte moderna – sosteneva Jung – evitava di rappresentarla, se ne teneva a distanza. Poche le eccezioni, fra le quali le poetiche simboliste, e non per caso troviamo fra i suoi libri il catalogo di Odilon Redon che esprimeva nelle sue opere l’intento di portare «la logica del visibile al servizio dell’invisibile». Per Jung l’arte moderna era incapace di attingere al simbolo.
Per accedere alla dimensione simbolica le immagini dovevano essere “affettive”, nel senso di raffigurare quella involontarietà e passività con cui le immagini si erano presentate all’autore, si trattava di un punto che non poteva andare perduto nella espressione artistica.
Ma come raffigurare, ma ancor prima immaginare, quel punto involontario, passivo da cui scaturisce l’atto creativo? Non certo attraverso il pieno figurativo di un’immagine: quell’immagine doveva contenere una sorta di “vuoto”, una non-immagine, doveva contenere anche la parte assente, il non-visibile che si poteva cogliere nella sua non-visibilità.
Soltanto conservando l’assenza, sia della coscienza sia della soggettività, si creava quell’immagine che era tanto chiusa in sé che aperta, quell’immagine che, non rimandando ad un significato già conosciuto, conteneva in sé il varco del simbolo.
E questo, per Jung, si riscontra in tutte i fenomeni psichici, è l’essere umano che per primo vive “psichicamente” nell’apertura dell’esperienza, a ciò che ancora non si è dato come fenomeno.
«La tendenza dell’inconscio e quella della coscienza sono i due fattori che contengono la funzione trascendente [simbolica]. Questa funzione si chiama trascendente perché rende possibile passare organicamente da un atteggiamento all’altro, vale a dire senza perdita dell’inconscio (Jung 1916, p. 88)».
Nel rapporto tra psicologia e arte Jung privilegia l’autonomia dell’opera d’arte opponendosi a qualsiasi interpretazione riduttivista in senso psicologico. L’opera non rimanda a nulla e forse non ha alcun significato, come dirà nel 1922: «Forse essa è come la natura, che semplicemente ‘è’ e non ‘significa’ nulla» (Jung 10*, p. 348). Ma non è chiusa perché il suo essere ciò che è dà anima e mette in movimento la tensione umana verso il “senso”, mette in movimento il pensare simbolico. Movimento significa apertura al futuro.
Il processo trasformativo è innestato dalla cooperazione tra la tensione umana per il senso, il “dare senso”, e quell’assenza che è contenuta nell’immagine. Ciò che noi vi vediamo, il visibile, non è la realtà, perché reale è solo il libero gioco delle forme immaginative. “Reale è ciò che agisce” – afferma Jung – e solo il movimento produce effetti.
Anche il sogno, come l’opera d’arte, è “natura”, non rimanda a nulla, le immagini che compaiono nel sogno, sottraendosi alla volontà dell’io, appaiono per ciò che sono, nel loro nudo manifestarsi. E in questo piano fenomenico dell’apparenza è contenuta l’intera realtà e verità che non si nascondono dietro il fenomeno ma sono esse stesse fenomeno. Appaiono involontariamente ma compaiono di fronte ad una coscienza, perché “natura” per Jung è ciò che si sottrae al controllo dell’Io, è uno spazio psichico di mezzo, in cui ogni immagine è conscia e inconscia simultaneamente, così come è l’intera ‘stoffa’ di cui è fatta la psiche.
Il doppio volto delle immagini oniriche, rivolto all’interno ma anche al palcoscenico della coscienza, configura un dinamismo psichico non binario ma “a tre”: la coscienza, l’inconscio e un soggetto, ciascuno dei quali poi è aperto agli altri: nella coscienza è presente il soggetto, e questo è intuibile, ma vi si trova anche l’inconscio, così anche nell’inconscio troviamo un soggetto e forme di coscienza e la soggettività è sempre in tensione tra la coscienza e l’inconscio perché – con le parole di Jung: «non esiste contenuto della coscienza che non sia inconscio sotto un altro aspetto. E forse non esiste neppure psichismo inconscio che non sia al tempo stesso conscio» (Jung 1946/1954, pp. 206-207).
La funzione centrale del pensiero simbolico è assicurata da una psiche che non è una “cosa” oggettivabile in senso sostanzialistico ed essenzialista, cioè fondativo secondo la metafisica classica. La psiche è sempre posizione intermedia protetta proprio dalla funzione simbolica, un “tra” che è presente in ogni manifestazione dell’esistenza.
Brevi note conclusive aperte
Ciascuno è anche figlio del proprio tempo e così è stato per Freud e per Jung che hanno anche respirato l’aria che li circondava. Questo è ineliminabile. E in quel periodo di profonde innovazioni a cavallo tra ‘800 e ‘900, le arti si trovavano in prima linea a guidare il cambiamento. È noto quanto la scoperta della psicoanalisi abbia influenzato la produzione artistica dell’epoca.
Pur non riconoscendolo espressamente, tanto Freud quanto Jung si sono confrontati con le arti, e con la loro possibilità di raffigurare quella novità di punto di vista che era prerogativa delle nuove tendenze artistiche.
Nei nuovi movimenti mutava il rapporto tra visibile e invisibile e mutava contemporaneamente la presa percettiva sulla realtà. Non era soltanto un nuovo modo di percepire che si andava svelando; si trattava anche di nuove forme di conoscenza e con essa nuove forme di realtà. L’inconscio era realtà destinata a rimanere, così come era destinata a rimanere una concezione del funzionamento psichico in quanto gioco di alternanza tra la coscienza e l’inconscio: era destinato a rimanere un “io” più debole, non più padrone a casa propria ma proprio per questo maggiormente aperto al nuovo, alle esperienze e a nuove forme di vita.
E questo ha accomunato i due pionieri nell’indagine sulla psiche, entrambi aperti ad una psiche fatta di immagini e di parole insieme, che spesso convergono ma altrettanto spesso possono contrapporsi con esiti nefasti per la persona, come la clinica di oggi ha ampiamente dimostrato.
Bibliografia
Chianese D., Fontana A. 2010, Immaginando, Franco Angeli, Milano.
Clair J. 2018, Freud. Du regard à l’écoute, Gallimard, Paris.
Jung C.G. 1909, Il metodo associativo in OCGJ(1969-2007), vol. 2**, Boringhieri, Torino.
Jung C.G. 1916, La funzione trascendente, in OCGJ (1969-2007), vol. 8, Boringhieri, Torino.
Jung C.G. 1947/1954, Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, in OCGJ (1969-2007), vol. 8, Boringhieri, Torino.
Mistura S. 2005, Eugen Bleuler di fronte alla psicoanalisi, in C. Maggini (a cura di) Schizofrenia. Attualità del pensiero di Eugen Bleuler, Edizioni ETS, Pisa.
Shamdasani S. 2010, C.G. Jung Il libro rosso, Bollati Boringhieri, Torino.