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La poesia – l’altra, riguadagnata prima voce dell’uomo.[1]
Introduzione
Se filosofia è andare dentro le cose, oltre la loro superficie, per sapere cosa sono (in questo senso ontologia e fenomenologia vi appartengono entrambe), allora la poesia di Celan ha molto da dire. Nel senso del pensiero poetante di Heidegger, nella misura in cui il poeta, come il filosofo, non si accontenta di lasciare essere le parole come semplicemente appaiono. Poetare è pensare e pensare è poetare. La parola, quale essa sia, svela e nasconde a un tempo ciò che è: parla e tace insieme. La sua verità è svelamento, scriveva Heidegger: ma il velo è la parola che insieme copre e rivela. L’ermeneutica ha senso solo per chi s’incammina contemporaneamente in queste due direzioni. Che poi non sono neppure solo due, ma illimitate (visto che tutte le superfici reali sono fatte di strati, hanno uno spessore, così come le profondità possono trovarsi più in alto o più in basso, per usare le nostre abituali percezioni dello spazio euclideo e gravitazionale). Ecco perché in Holzwege Heidegger parlava dei poeti come “i più arrischianti” (riprendendo un verso di Rilke), coloro che non solo si scagliavano contro i limiti del linguaggio, ma vivevano e creavano questi stessi limiti per superarne le colonne d’Ercole, per ridisegnarli continuamente con le proprie parole: prodotte da loro perché prodotti da loro (il poeta come maestro delle parole, ma nel senso che sono le parole a rendere poeta un essere umano vivente). La potenza del linguaggio, che Heidegger chiama la sua Apertura, è dovuta al fatto che “Il linguaggio stesso è Poesia in senso essenziale”[2]; ma siccome “ogni poetare è nel suo fondamento un pensare”[3], il filosofo ha il compito di mostrare e ascoltare (o far ascoltare), se non di capire e svelare, le parole della poesia come parole di verità (a-letheia, s-velamento). Queste parole si aprono e si chiudono nell’Apertura: vuol dire, allusivamente, che ogni parola può essere pensata – e che in particolare la parola poetica lo è essenzialmente – visto che in ogni parola si nasconde l’abisso del linguaggio spesso celato dall’apparire superficiale del significato (che appunto chiude la parola nella sua referenzialità), benché sotto quella superficie ribolla un’apertura poetica che infatti ne permette l’uso di cui i poeti sono capaci, e che noi profani possiamo intuire grazie all’analisi delle cosiddette tecniche poetiche (le metafore, le metonimie, le similitudini, ma anche le assonanze e tutti gli altri tropi che aprono nella referenza crepe che ci mostrano ben altro). Celebri, sotto questo aspetto, le spesso discutibili e discusse etimologie heideggeriane.
1) Attraversare il tempo
Celan ha cominciato a leggere e studiare Heidegger fin dal 1951 e ne è rimasto profondamente impressionato. Il gioco del filosofo con la lingua, ermeticamente utilizzata e forzata per esprimere un pensiero difficile e profondo, era particolarmente consonante con il suo dire poetico (di Celan). Eppure fra i due resta una differenza decisiva, come ha fatto notare anche V. Vitiello: Heidegger è sempre rimasto sul piano dell’ontologia (il pensiero dell’Essere) che ha rivendicato come quello proprio di ogni autentico pensare filosofico, mentre Celan – malgrado il suo ermetismo anche estremo – ha sempre rivendicato per la poesia il piano della realtà (quello “ontico”, come lo chiamava Heidegger), benché questa realtà fosse irriducibile a ciò di cui si occupavano le scienze naturali, ai meccanismi e agli automatismi algoritmici (diremmo oggi) che non possono rendere conto (nel verso senso della parola contare) della sua inesauribile immaterialità (il meridiano, tr. it. P. 21), che pure è una parte importante e integrante della sua materialità (diciamo, in un certo senso tutto poetico, la “materia oscura” della realtà)[4].
Mentre Heidegger intendeva il linguaggio come “la casa dell’Essere”, luogo poetico per eccellenza dove l’Essere si dava nel suo disvelarsi che solo i poeti (meglio, alcuni di essi) avevano saputo dire nei loro versi, Celan credeva che la lingua scelta dal poeta fosse una condizione storica, sociale e psichica ineludibile in cui l’io si trovava inevitabilmente e contingentemente e da cui non era possibile uscire. Spiegando la scelta della lingua tedesca per le sue poesie – era la sua lingua madre, visto che la natìa Bucovina era parte dell’impero austro-ungarico, solo in seguito passata alla Romania , benché fosse anche la lingua del nemico e della catastrofe ebraica di cui lui era stato vittima [fra l’altro la lingua di chi gli aveva ucciso la madre e il padre)] -, scrive nell’allocuzione per il premio conferitogli a Brema nel 1958: “Raggiungibile, vicina e non perduta in mezzo a tante perdite, una cosa sola: la lingua. La lingua, essa sì, nonostante tutto, rimase acquisita [cioè nonostante le perdite, la Shoah][…] [e aggiunge, anzi] “ ‘arricchita’ da tutto questo. Con questa lingua, in quegli anni e negli anni che seguirono, io ho tentato di scrivere poesie [ecco la contingenza storica e socio-psichica]: per parlare, per orientarmi, per accertare dove mi trovavo e dove stavo andando, per darmi una prospettiva di realtà”[5].
Lingua tedesca qui è salvezza e dannazione, per questo scelta e mantenuta: salvezza perché, come scrive ancora, il tedesco lo permea e lo costituisce come qualcosa di estraneo-familiare, di perturbante se vogliamo citare Freud, eppure di intimo e inaggirabile: lui, Paul Antschel, che ha cambiato cognome anagrammandolo in Celan, ebreo senza patria e dalle molte lingue che amava cambiare lingua (per esempio traducendo) per fare poesia sull’indicibile, ha saputo e potuto dire il dolore, la morte, l’angoscia ma anche la luce, la levità e persino la speranza di cui ogni lingua è portatrice. Il tedesco come le altre; anzi, NONOSTANTE tutto forse – lo scrive, “forse”[6] – proprio per questo più delle altre. È in questo senso che è “arricchita”, questa lingua: arricchita dal nonostante tutto, dal passaggio per la bocca dei carnefici e malgrado questo rimanere dicibile, attraversando quelle bocche come l’attraversamento di un tempo che permette e apre un altro tempo.
Poesia, scrive ancora Celan, è questo attraversamento in ciò che caratterizza più propriamente le lingue (ma non in senso heideggeriano): parlare e ascoltare, io e tu. “La poesia, essendo non per nulla una manifestazione linguistica e quindi dialogicaper natura, può essere un messaggio nella bottiglia, gettato a mare nella convinzione – certo non sempre sorretta da grande speranza – che esso possa un qualche giorno e da qualche parte essere sospinto a una spiaggia, alla spiaggia del cuore, magari”.[7]
Ecco la speranza – non grande, certo, ma pur sempre tale, anche se non escatologica – di un messaggio lanciato oltre il tempo ma pur sempre nel tempo (“un qualche giorno”) verso un luogo che non è un luogo, pur restando un luogo (da cui la reiterazione anaforica “una spiaggia, alla spiaggia del cuore”).
La poesia non è fuori del tempo e dello spazio, poiché “è sempre in cammino”[8] – ma su questo anche Heidegger concordava, quando parlava dell’altra temporalità dell’Essere che nulla aveva a che fare col tempo-chronos calcolabile e contabile –; ma pur essendo nel tempo e nella storia degli umani, perché di questa storia deve parlare (la Shoah e la morte accompagneranno tutta la produzione poetica di Celan), sa anche andar oltre questa storia senza rimanervi invischiata o assoggettata, perché il tempo non è a una sola dimensione: “La poesia non è qualcosa di atemporale. Certo, essa rivendica infinitezza, cerca di aprirsi un varco attraverso il tempo – attraverso, ma non sopra il tempo.”[9]
Proprio per questo aveva chiesto esplicitamente a Heidegger, in occasione della sua visita alla famosa Capanna nella Foresta nera dove viveva il filosofo, una parola in più. Lo aveva scritto nel libro degli ospiti su cui Heidegger chiedeva ai suoi visitatori di scrivere qualcosa, oltre a firmare: “Nel libro della baita, con lo sguardo sulla stella del pozzo, nel cuore una speranza di una parola che verrà”; frase che poi ha ripreso nella poesia che dedicò a quell’incontro (Todtnauberg): “nella / malga // la riga del libro/ – quali nomi accolse / prima del mio? – / la riga, in quel libro / inscritta, / d’una speranza, oggi, / dentro il cuore, / per la parola / ventura / di un uomo di pensiero […]”[10].
La speranza di una parola che non è venuta, perché il filosofo ascoltava l’Essere e non il dolore reale e pieno (anche di vita) che il poeta cercava di “dire”. Come quando nel poema “Stretta” aveva scritto: “Venne, venne, / Venne una parola, venne, / venne attraverso la notte / voleva luccicare, luccicare. // Cenere. / Cenere, cenere. / Notte. / Notte e notte – Va’ / all’occhio, umido occhio […]”[11]. Attraverso la notte, senza cancellare la notte, la promessa di una parola che è speranza di una parola che si rivolga a un “tu” senza cui non ci sarebbe dialogo, un “tu” che sarà “io” e “noi” nella reciprocità, senza che per questo non ci sia cenere e notte, ma capace di andare all’umido occhio, umido perché vivo, umido perché piangente e chissà, forse anche ridente. Eppure sempre dolente.
“Attraverso la notte” è un modo di attraversare il tempo privandolo della sua unicità e inesorabilità pur senza cancellare o nascondere l’ineluttabilità (ciò che è accaduto, il trauma). Una parola voleva luccicare, nonostante la cenere e la notte. Cenere è ciò che rimane dei corpi eliminati, siano essi animali o vegetali; è ciò che è ormai privo di ogni linfa vitale, secco, inerte, granuloso (sabbia e granularità sono parole che tornano spesso nelle poesie di Celan). La parola ripetuta tre volte, come la notte, richiama la triade, il numero mistico. Il verbo al passato è anche lui un richiamo a una determinata temporalità (venne, voleva), ma anche al passato che non passa. La notte è ciò che è privo di luce, il luogo degli incubi; eppure è anche lo spazio-tempo da attraversare con la parola: non la parola in generale, l’intensa e decisiva parola filosofica che Heidegger ha inseguito e di cui è stato il maestro nel ricavarla da affascinanti richiami etimologici, ma una parola. Anonima nel suo nominare qualcosa che non sappiamo, eppure carica di una forza luminosa che può attraversare la notte: per questo il poeta le ordina, o piuttosto la prega (va’) di mettersi in cammino verso l’occhio ancora vivo (umido), per quanto dolente.
2) Il silenzio di Heidegger
Per Vitiello “il linguaggio poetico di Celan nasce con la morte del linguaggio filosofico di Heidegger”[12].
Perché mentre il poeta ascolta il filosofo e ne impara la forza ermeneutica che fa del linguaggio la casa dell’Essere, per cui diventa possibile forzarne i limiti per dire ciò che altrimenti resta indicibile (anche a costo di giocare-inventare coi neologismi, le composizioni a-sintattiche e le scomposizioni metonimiche), il filosofo non sente né capisce il poeta se non per ciò che può confermarne il pensiero ontologico, senza nulla concedere all’ontico (il luogo dove il dolore si fa sentire, dove la Shoah è stata ben reale).
Di qui la delusione di Celan, dopo il loro incontro del 1967, che ha voluto esprimere nella poesia che gli ha dedicato, Todtnauberg[13]. È una poesia importante perché appartiene all’ultimo periodo del poeta, quando ormai i ricoveri psichiatrici si susseguivano drammatici e la lingua si faceva sempre più ermetica e difficile, spezzata, spesso incomprensibile. È importante perché piena di lucidità e ci si può leggere una presa di posizione decisiva nei confronti di quella filosofia.
Delusione per le parole vanamente sperate e attese dal grande pensatore. La “parola ventura” dell’uomo di pensiero non arrivò mai, per come l’ebreo Celan la desiderava; parola capace cioè di misurarsi con l’indicibile pietrificato nel dolore: Heidegger maestro dell’etimologia pensante, colui che era stato capace di inoltrarsi nei sentieri dell’Essere grazie a un lavoro incredibilmente profondo sul linguaggio e la parola, non aveva saputo/voluto percorrere quegli altri sentieri – anche loro tragicamente interrotti – dell’indicibile catastrofe, di quegli infiniti esseri-per-la-morte che non avevano potuto dire nulla, cancellati per sempre dalla neve. Proprio lui, che aveva saputo cogliere l’essenza della verità come a-letheia persino in un semplice paio di scarpe da contadina dipinte da Van Gogh, a partire dalle quali aveva saputo farci entrare nell’esser cosa della cosa (Saggio sull’origine dell’opera d’arte), avrebbe potuto trovare un sentiero per mettersi in cammino verso quell’aberrazione dell’essere che è stata la shoah e poterla anche solo “pensare”, o almeno evocarne l’impensabilità. Invece niente. Nessuna parola. L’aberrazione non è ontologica, evidentemente per Heidegger, ma solo ontica, aberrazione dell’esserci inautentico (in questa discutibile teodicea ontologica del filosofo).
Ma questo silenzio di Heidegger Celan non lo lascia passare inosservato, mi pare.
La poesia, che ermeticamente racconta l’incontro fra il pensatore e il poeta della malga, comincia con un elenco di piante (Heidegger raccontò stupefatto a Gadamer che Celan, passeggiando con lui, le nominava con una perizia botanica sorprendente e decisamente superiore alla sua): è ancorato alla terra, circostanziato nella natura in cui è immersa la malga e che il poeta non può ignorare. La materialità delle cose, la loro onticità, viene per prima ed è irriducibile. Infatti, dopo i versi sulla speranza di una parola del filosofo, torna la natura (“umidi prati silvestri, non spianati / orchidee selvatiche, sparsamente”), l’espressione della delusione e di nuovo la natura, la terra. Quella Terra che tradotta con la maiuscola vorrebbe rappresentare un elemento dei quattro di cui Heidegger parla come composizione dell’opera d’arte in cammino verso la dicibilità dell’Essere, anche lui con la maiuscola. Terra ontologica, per il filosofo, che per il poeta però si copre di neve, pietrificata dal gelo e coperta dalla cenere di quei nessuno di cui non si può tacere, pur non potendone parlare, e di cui non si chiede nulla[14]. Terra senza maiuscola, spietatamente nostra e di nessuno.
Così l’andamento della poesia è oscillante, ma inesorabile. La precisione delle parole non permette alcuna vaghezza, alcuna sottrazione: le parole dicono. Celan, come poeta, lo sa bene e con la stessa intensità del filosofo. Heidegger stesso aveva detto che “il linguaggio parla” e che bisognava diventare capaci di ascoltarlo. “Arnica, Eufrasia”, sono nomi che dicono con precisione la natura, evocando la grecità del loro etimo tanto cara al filosofo: sono piante medicinali, speranza di una cura. La fonte di cui si parla subito dopo serve a placare la sete, cioè il desiderio, la speranza nonostante tutto (e l’incisione a forma di stella ricorda evocativamente l’altra stella, simbolo ebraico). Vale a dire nonostante i nomi che nel libro – chissà? – sono accolti prima di quello del poeta ebreo, magari anche nomi di assassini, di complici – chissà? Nonostante questo si può sperare ancora, prima di tornare alla natura, alla sua umidità vitale (anche l’occhio era umido). La natura è là, presente, sparsa dappertutto, amata e nominata tanto dal filosofo quanto dal poeta.; in questo simili, entrambi amanti delle parole e della botanica. La natura selvaggia, non lavorata dall’uomo (prati… non spianati), può forse far dimenticare ciò che è accaduto? Il silenzio della natura è forse il silenzio dell’uomo, il silenzio del filosofo, delle parole non dette? No. Meglio sarebbe lasciar perdere la natura, la terra, se non si è capaci di capire che i due silenzi sono incomparabili, perché il silenzio di Heidegger accompagna come un fetido fantasma il silenzio di quei respiri interrotti a forza e a milioni.
Ecco allora la rabbia che lentamente monta in Celan (parole crude), durante il viaggio di ritorno, e che esprime senza veli al suo accompagnatore in automobile (chi guida, l’uomo che anche lui ascolta = Gerhardt Baumann), mentre tornano riattraversando “percorsi a / mezzo, i viottoli / di tronchi sulla torbiera gonfia, // umidore, / forte.”
Il poeta torna al suo, di linguaggio: sempre più chiuso, sempre più difficilmente decifrabile.
Ne è consapevole, tuttavia. Sa che la lucidità botanica dei nomi esatti non sarà sufficiente a nominare l’innominabile. La speranza non basta. Occorre cercare ancora, in altre parole più oscure, in parole costruite apposta, inesistenti, impossibili. Sarà necessario “estrarre a scalpello l’ombra / delle parole, farne catasta[…]”[15], prima di poter parlare ancora. Occorrerà fare piazza pulita di molte parole normali e della loro luce apparente, perché falsamente chiara. La poesia ha bisogno di altro. Per questo deve inoltrarsi nell’ambigua dimensione del buio (l’enigmaticità, l’ellissi, la forzatura metonimica). Lo esprime così, in un’altra poesia: “Sbatti via leggermente / i cunei di luce: // l’ondeggiante parola / la possiede / il buio”[16].
Sembra quasi che la famosa ingiunzione di Adorno[17] in questi momenti sia inaggirabile persino per Celan. E qui si vede bene l’ambiguità, l’incertezza e la confusione che la sua poesia genera negli interpreti, per cui non si può mai essere sicuri di aver capito bene quanto era ermeticamente contenuto nei versi. Celan vuole estrarre a scalpello l’ombra delle parole per superare i limiti del linguaggio comune, oppure vuole salvaguardare la memoria delle parole mai dette, la cui ombra giace ghiacciata-pietrificata nelle montagne dei morti dello sterminio, accatastati nei campi abbandonati dai nazisti in fuga? Qual è il compito del poeta cui Celan non può sottrarsi e di fronte al cui fallimento non può che abbandonare ogni cosa, dandosi la morte?
In tutta la sua opera resta costante, malgrado una progressiva trasformazione, il bisogno di dar voce al suo trauma, che era il trauma di un popolo, di una moltitudine umana senza voce, di fronte alla quale ormai lui, come poeta e essere umano, può allora solo balbettare. Leggo così una sua poesia degli ultimi anni: “Il mondo da riprodurre balbettando, / nel quale io come ospite / avrò soggiornato: un nome / che cola, trasudato dal muro / su cui s’alza lambente / la lingua di una piaga”[18].
3) Inascoltato
Un gioco serio e tragico sulla lingua, quello di Celan. Nei giochi di parole che il tedesco gli permette assai più di altre lingue parla lo sforzo di dire il dolore – linguaggio del dolore è linguaggio della poesia anche per Adorno, che poi tornerà indietro rispetto alla sua ingiunzione del 1949 e spiegherà di essere stato frainteso– Celan è fra i pochi artisti-poeti che abbia saputo creare una lingua del dolore: in questo sta la sua difficoltà, l’ermetismo dei suoi versi-parole-frasi, come se fosse riuscito a replicare ad Adorno costruendo (o trovando) questa strana lingua (ma la poesia, persino in Celan, è veramente solo linguaggio del dolore?). Si potrebbe osservare però che la sua tragica lezione è che neppure la parola ci può salvare… e infatti come molti altri artisti si è suicidato (Vladimir Majakowski, Ingeborg Bachmann, Gerashim Luca, Sylvia Plath, ecc.), benché abbia cercato proprio nelle parole la salvezza dalla morte così costantemente presente nelle sue poesie.
Quello che intendo, nel mio misurato e debole ascolto della parola poetica, è che forse è stata proprio questa lingua impossibile nella sua ermetica purezza a uccidere il poeta in carne e ossa, cioè a renderlo per sempre al silenzio che lui stesso, con le sue parole, aveva cercato di dire.
Adorno aveva capito profondamente questo, di Celan, quando ha provato a scrivere su di lui un saggio che non ha mai portato a termine: “Questa lirica è compenetrata dalla vergogna dell’arte al cospetto del dolore che si sottrae sia all’esperienza, sia alla sublimazione. Le poesie di Celan vogliono dire col silenzio l’estremo orrore. Il loro stesso contenuto di verità diventa un fatto negativo. Esse imitano una lingua al di sotto di quella impotente degli uomini […], imitano la lingua morta della pietra e della stella […]. La lingua di ciò che è privo di vita diventa l’ultima consolazione sulla morte che ha perduto ogni senso”[19].
La lingua incomprensibile di una morte che è sempre incomprensibile significa (nel vero senso del termine) che il significato non c’è, e in questo paradosso ossimorico il rischio è quello di perdersi (o di pagare la colpa del sopravvissuto, perso in una vita di cui non riconosce più il significato).
Celan aveva scritto esplicitamente che per lui l’essenza della poesia – in accordo con il pensiero di Heidegger – era il linguaggio nel suo essere in cammino verso qualcosa (il senso rammemorante dell’Essere, per il filosofo; la memoria di ciò che è stato per continuare a parlare, per il poeta). Questo qualcosa non poteva sottrarsi all’istanza essenziale di ogni lingua e di ogni parola, che per Celan (come per Benveniste e per Buber, dalle loro diversissime prospettive) era il dialogo. Ma come può preservare un dialogo fra “io” e “tu” la lingua ermetica, spezzata e riconfigurata di Celan? Eppure era proprio questo che lui cercava/sperava: un altro genere di dialogo, una lingua nella lingua attraverso la lingua, abissale e profonda, sottratta alla chiacchiera intramondana (come Heidegger aveva chiamato l’esistenza secondo lui inautentica in Essere e tempo). Un dialogo che non fosse un monologo, dialogo con se stesso, coi propri morti, con la moglie e gli amici, con un “tu” che non venisse mai ridotto a un “egli/essa” qualsiasi (l’Altro[20], anche in sé stessi). Celan ha cercato e costruito una lingua che potesse tenere in questo dialogo, lingua difficile perché doveva sottrarsi proprio al veto adorniano (quello di fare arte, lirica e piacevole, su ciò che era stato – cosa di cui era stato accusato per la sua poesia Todesfuge).
Celan insomma ha cercato una lingua pura, ideale, perfetta, o quanto meno alterata, quasi purificata sebbene spezzata, che nelle sue raccolte degli ultimi anni ha reso sempre più indecifrabile. E si lamentava ossessivamente del fatto che gli altri non lo capissero, anzi – meglio – non lo ascoltassero con la dovuta attenzione, cioè non accettassero il dialogo (negli ultimi anni, prima del suicidio, quando parlava a letture o conferenze, se ne lamentava spesso, ultima in ordine di tempo la sua lamentela nei confronti dello stesso Heidegger durante una lettura a Friburgo del marzo 1970, che invece il filosofo aveva seguito con attenzione tanto da saper ripetere a memoria alcuni dei versi appena letti, ma che il poeta non aveva giudicato adeguatamente “ascoltante”)[21].
Era quanto gli aveva rimproverato anche Primo Levi, cui questa lingua impossibile e incomprensibile sembrava solo un artificio letterario. Lingua inascoltabile perché incomprensibile, per Levi, che evidentemente non aveva capito in quale direzione era rivolto il cammino di Celan.
Ma dove avrebbe portato questa estremizzazione? A quale dialogo? Come può un essere umano in carne e ossa sopportare questo oltrepassamento e questo attraversamento dei limiti del linguaggio? La morte del poeta è per me la testimonianza nella carne di un dialogo interrotto, o spezzato e inascoltato. La testimonianza cioè che la purezza porta al silenzio di cui aveva detto Adorno, e il silenzio non appartiene al dialogo se non per quei brevi, essenziali istanti che sono le pause, gli atemwende, che la musica ha da sempre saputo gestire per non lasciargli l’ultima parola.
Era forse proprio questo compito quasi impossibile ciò che Celan chiedeva ai suoi ascoltatori? Ma lui, come noi, siamo fatti di carne, siamo misti di corpo e mente, non abbiamo purezza e non siamo dèi[22]. Lui andava avanti per il suo cammino, ma noi – i lettori – eravamo rimasti troppo indietro per raggiungerlo e sentirne il richiamo.
Gadamer ha provato a guidarci in questo labirinto con la sua consueta forza ermeneutica. Nel suo libro su Celan[23] comincia proprio indicando questa distanza, e il compito impossibile dell’ermeneutica sul poetico: “Le poesie di Celan ci raggiungono, ma noi non riusciamo a coglierle. Egli stesso ha inteso la sua opera poetica come un ‘messaggio in bottiglia’”. Ma poi, – si chiede Gadamer – a chi trova questo messaggio e lo apre, cosa succede? Celan ci spinge a forza oltre i limiti del linguaggio (titolo di un libro di Gadamer), ma a quale prezzo?
Rilke, e poi Heidegger, come ho accennato prima, avevano parlato del “rischio” verso cui la poesia spinge. Celan lo ha preso talmente sul serio che questo rischio gli è stato fatale. Scegliere di mettersi in camino verso il linguaggio apre a quello che Heidegger ha chiamato l’Ascolto rammemorante: è un rischio, per il filosofo, di perdere il senso dell’Essere se l’ascolto è distratto dalla tecnica, dal fare, dal produrre, dalla chiacchiera… insomma, da ciò che son chiamate le “debolezze della carne”. Il filosofo sa abbandonarsi (Gelassenheit) alle piccole cose perché sa trovarle come propriamente cose, nel loro esser cose che l’arte talvolta sa mostrarci (le scarpe della contadina). Il poeta invece no, perché vive il linguaggio sulla sua propria pelle, bruciando le parole quando viene bruciato da esse. Ogni parola è una scelta in cui si gioca tutto. Il filosofo mantiene la distanza, il poeta invece è sempre inevitabilmente nella prossimità[24], è il suo stesso dire, dialogo inaudito e inaudibile quando si spinge ai suoi limiti.[25] Ma sempre dialogo: perché altrimenti muore il linguaggio stesso della poesia. Così Celan lo spiegava in Il Meridiano. Per questo era per lui – già ormai al limite della sopportazione (poco più di un mese dopo si sarebbe buttato dal ponte Mirabeau) – così disperante non essere ascoltato con l’attenzione che si aspettava[26], cioè non riuscire a dialogare veramente. Ma se muore la poesia nel suo soliloquio, allora anche il poeta non ha ragione di esistere. Ecco il rischio estremo che incute paura in chi non dispone delle giuste parole[27].
4) Chi sono io, chi sei tu?
Ma si può aver paura delle parole? Si deve? Forse è anche questa una delle linee guida del poetare di Celan: da una parte la paura, dall’altra la determinazione a giocarci molto seriamente, a usare la parola per indicare non più l’indicibile, ma l’esperienza altrimenti inesprimibile e pur sempre carnale. Celan gioca con le parole. Non ha scritto solo poesie sul tema dello sterminio, ma anche sull’amore, sui figli, su circostanze di vita, i suoi ricoveri, personaggi politici e poi giochi di parole, motteggi, aforismi e battute (per es. in Microliti). Ma si è trattato di un gioco mortale. Ecco forse perché Celan è stato tanto affascinato da Heidegger, (pur trattandolo con severità, tanto nella sua visita a Todtnauberg del luglio 1967 che alla lettura di Friburgo del 1970): perché Heidegger aveva capito Hölderlin, Trakl, George e aveva scritto esplicitamente che il dire poetico si fa “eco del Dire originario” e “che solo la parola – citando George – fa essere una cosa come cosa” (“Nessuna cosa è dove la parola manca”)[28]. Heidegger è stato il filosofo che più di ogni altro ha compreso la potenza ontologica della lingua di poeti in cammino verso il linguaggio. Celan si sarebbe sentito compreso da lui e per questo il filosofo era ansioso di conoscerlo e incontrarlo.
C’è da averne paura, di questa potenza. Cosa possono le parole, per incutere questa paura? Perché riescono a essere tanto ermetiche e difficili, e al tempo stesso evocative? Qual è il rischio che ci fanno correre, se non ci fermiamo alla loro superficie? Tanto Heidegger che Celan lo sanno bene, eppure non sono veramente riusciti a dialogare. Heidegger è troppo lontano dal dolore di cui ci parla Celan, quello del disincanto e dell’abbandono, cui si riferisce per esempio in una sua bellissima poesia di alcuni anni prima: «Nessuno c’impasta di nuovo, da terra e fango, / nessuno insuffla la vita alla nostra polvere. / Nessuno. / Che tu sia lodato, Nessuno. / È per amor tuo/ che vogliamo fiorire […]»[29]. Non c’è nostalgia per “i divini”, come talvolta trapela dalla scrittura del filosofo, non c’è l’Ereignis, l’Evento di un Avvento illuminante per un attimo, o balenante come avrebbe detto Benjamin. Non c’è nessuno, per fortuna nostra, cui dare colpe o responsabilità in un oltre divinizzato: ci siamo noi, però, tutti noi, che balbettando non smettiamo (o non dovremmo smettere) di cercare di parlare, dialogare, rammemorare.
Seguo Gadamer e provo a decifrare il messaggio nella bottiglia. Che operazione sto compiendo? Cosa leggo, leggendo Celan? Come posso partecipare al dialogo? Ho bisogno del filosofo che mi conduca per il cammino, segnandomi la via (Segnavia) senza la quale non potrei che perdermi nel labirinto dell’insensato e dell’incomprensibile. Ho bisogno cioè di un interprete, di un critico attento e informato. Vale a dire che ho bisogno di un traduttore che porti le parole di Celan al mio linguaggio, alla mia sensibilità e alle mie ragioni. Heidegger è quello giusto? Non sembra.
Non va dimenticato che Celan stesso ha fatto opera di traduttore[30], e che in questo era particolarmente versato. Perché tradurre, per lui, era continuare a mettersi in gioco, continuare a rischiare: niente di meccanico o di professionale. E per questo era particolarmente esigente quanto alla traduzione delle sue stesse poesie. Aborriva i traduttori professionisti, coloro che erano in grado di tradurre ogni cosa, eruditi nel lessico e nelle forme a tal punto che ogni ostacolo gli diventava sormontabile: non era autentica traduzione, per lui, quella, come si nota dalle vicende della traduzione in italiano delle sue poesie, fin dall’inizio, quando Vittorio Sereni voleva proporlo a Mondadori.
Zanzotto e Sereni esprimono molto chiaramente la difficoltà nel tradurre Celan. Il perché emerge dal carteggio Celan-Sereni. In una lettera a quest’ultimo del 1962 Celan scrive, preoccupato per la traduzione che ancora deve aver luogo: “Personalmente non mi sono mai cimentato, in materia di poesia, col tradurre nient’altro che ciò che, come si dice nella mia lingua, mi parla («was mich anspricht»), e immagino che le sue personali esperienze debbano essere analoghe alle mie.” Come dire: le parole da sole non bastano. Non c’è una meccanica della traduzione, perché la parola, come faceva notare anche Gadamer, deve restare un dialogo, mai un monologo. La parola interpella e viene interpellata. Quando si parla, si è sempre in due: io e tu. E il “tu” per Celan è importantissimo, essenza vitale irrinunciabile di tutta la sua produzione poetica. Per questo Gadamer aveva dato quel titolo al suo libro sul poeta [31]: questo dialogo è comunicazione, ma nel senso che anche Buber aveva dato alla coppia io-tu (rispetto a quella oggettivante io-esso): c’è un’intimità (l’incontro) che sradica ogni tecnicismo, che è al di là di ogni algoritmo, perché “evoca” qualcosa che si vive e si sente senza poterlo razionalizzare: l’incontro, l’ascolto e – perché no – anche l’amore, la relazione. La parola della poesia gioca mettendo in gioco il linguaggio stesso (anche la vita), ben oltre la dicotomia fra connotazione e denotazione. Il dialogo però non si limita all’ambito antropologico (da un me interiore a un tu esterno) o psicologico (da un io-io a un io-tu interiore), perché le parole stesse, come i pensieri e le idee, sono in dialogo fra loro e con noi. L’”io” e il “tu” sono anche parole che parlano a parole trasformandosi a vicenda. Se l’uomo abita poeticamente la terra (Hölderlin-Heidegger), anche la terra abita poeticamente l’uomo, per cui è solo un’illusione prospettica il fatto che la possa e la voglia dominare interamente (tecnicamente, nel senso heideggeriano). Il dire poetico s’inoltra in questa dimensione adimensionale, ossimorica, “sconosciuta” (io che parlo, tu che ascolti), ma allo stesso tempo ne è abitato, ne è inoltrato, percorso (quando percorre, è un io, quando ne è percorso è un tu, ma entrambi i “quando” appartengono a un’unica temporalità, sono paradossalmente contemporanei, si attraversano reciprocamente). Nello scambio di lettere con R. Char è evidente ed esplicito: sulla poesia, Celan scrive a Char:” “Non si può mai pretendere di cogliere interamente [una poesia]: sarebbe una mancanza di rispetto di fronte all’ignoto che abita – o viene ad abitare – il poeta; sarebbe dimenticare che la poesia la si respira, dimenticare che la poesia vi aspira (ma essa soffia questo ritmo – da dove ci viene?). Il pensiero – muto – è ancora la parola, organizza questo respiro”. Char infatti aveva scritto in Fureur et mystère: «Come vivere, senza quest’ignoto davanti a sé? » e, in una lettera precedente a Celan, aveva parlato di «quest’innominabile che s’instaura in noi come un’atroce fumata»[32].
5) Il compito del traduttore
L’ignoto sarebbe quel terreno comune in cui si parla venendo parlati, autenticamente in dialogo. Viene da qui l’amore e la cura incredibili e sensibilissimi con cui Celan non ha mai smesso di tradurre autori che sentiva interpellarlo. Perché la traduzione è proprio questo parlare venendo parlati, questo modificarsi l’un l’altra delle parole fra loro in un ascolto reciproco e in un dire che non ha confini determinati (algoritmici).
Ma questo non risolve il problema, tanto che persino Zanzotto – il poeta che forse più di tutti ha lavorato sulla lingua nell’Italia postbellica -, chiamato da Sereni per tradurre Celan, si rifiuta scrivendogli: “L’avvicinamento alla poesia di Celan, anche in traduzione e in forma frammentaria, è sconvolgente. Egli rappresenta la realizzazione di ciò che non sembrava possibile: non solo scrivere poesia dopo Auschwitz ma scrivere “dentro” queste ceneri […]”: è l’impossibile che si fa parola, ma è una parola minacciosa, che incute paura, inquietudine, stordimento nell’ignoto in cui si addentra. Zanzotto lo capisce benissimo. Non è una parola che mette pace. Il suo dialogo mette in crisi, non appiana il conflitto e la differenza fra ciò che si può dire e ciò che resta indicibile. Trasgredisce l’invito di Wittgenstein a tacere di ciò di cui non si deve né si può parlare.
Ma questa trasgressione è un fardello da cui la parola poetica non si riesce a liberare, se osa andare fino in fondo, come Celan ha osato fare. Questo osare corre il rischio – anche appunto mortale – della difficoltà estrema che ogni lingua porta con sé come suo lato d’ombra: l’incomunicabilità (i cui gradi possono essere diversissimi, dal più lieve dovuto alla non conoscenza di quella specifica lingua in cui qualcuno parla, all’analfabetismo e, massimamente, all’ermetismo e alle figure delle parole con cui si gioca un gioco che va oltre, da cui la poetica di Celan, ma anche di Zanzotto e molti altri). A Fortini per esempio non è mai piaciuto veramente Celan, come dimostrano sia la sua esplicita ostilità agli inizi degli anni Sessanta (forse anche influenzato dall’affare Goll), ma anche i suoi più moderati commenti di un decennio dopo (sulla raccolta postuma Lichtzwang, in cui Fortini vede una «poesia della non-comunicazione», che «sfida la lettura»”).
Mi stupisce che Fortini, con la sua straordinaria intelligenza, non abbia capito come la comunicabilità – il dialogo – non abbia una sola dimensione; questo proprio perché il rapporto è sempre un io-tu e mai un io-tutti, e nel rapporto io-tu la comunicazione passa per l’intimità, la particolarità, la concretezza circostanziale del rapporto, che non è mai uguale a un altro. E infatti se è vero che la poesia di Celan a Fortini non diceva gran che, lo stesso non accadeva con altri grandi poeti come Sereni (per non dire di Char, Bonnefoy, ecc.), oppure filosofi come Gadamer, Poeggeler, Derrida, Vitiello, oltre naturalmente Heidegger. E proprio in questo senso Celan si preoccupava della sua traduzione in italiano, perché il traduttore da scegliere doveva essere qualcuno a cui la sua poesia “parlasse”.
Il problema della traduzione[33] non deve quindi passare come un aspetto per certi versi accessorio della poetica celaniana. Innanzitutto perché è un problema di tradimento (traduttore/traditore) rispetto a ciò che ci accomuna e ci caratterizza come gli umani che siamo, cioè il fatto di essere dei parlanti. E il tradimento è qualcosa su cui Celan ha lavorato in tutta la sua poetica della memoria, percorrendo il cammino di una poesia possibile dopo Auschwitz che non tradisse appunto “ciò che è stato”; ma al tempo stesso è rimasto qualcosa che lo ha tormentato fino all’ossessione degli ultimi anni, quando il tradimento è stato da lui vissuto e subìto come incapacità di ascolto, rifiuto sordo del suo poetare e della sua parola.
In secondo luogo perché la traduzione è essa stessa un dialogo fra le lingue in nome di una comunità di linguaggio di cui è difficile rendere conto, pur essendo sempre e comunque possibile (la possibilità di comunicare stessa vi è implicata, come la possibilità e la realtà di fatto delle traduzioni, a qualsiasi livello esse avvengano).
W. Benjamin, il cui pensiero era ben presente a Celan, lo aveva scritto esplicitamente nel suo testo su Il compito del traduttore (1923). La poesia non “comunica” al lettore qualcosa: la sua comprensione non è il frutto di una comunicazione, ma qualcosa di assai diverso, più profondo, più intimo e al tempo stesso più sublime (anche nel senso di sconvolgente, come dice l’estetica del sublime). “L’essenziale, in essa, non è comunicazione, non è testimonianza. Ma la traduzione che volesse trasmettere e mediare non potrebbe mediare che la comunicazione – e cioè qualcosa di inessenziale. Ed è questo infatti un segno di riconoscimento delle cattive traduzioni”[34]. La cattiva traduzione si limita a comunicare qualcosa, a trasmettere un messaggio. Ma se la poesia, come molta arte anche di altro genere, “non esiste per il lettore”, come spiega Benjamin, allora neppure la traduzione dovrebbe farlo.
Qual è allora il suo compito? Per Benjamin è quello di dare un incremento d’essere alla lingua, sia a quella d’origine che a quella di arrivo, in nome di un’altra lingua che non esiste in realtà e che è come un ideale di lingua pura, totale, prebabelica. La traduzione, nei confronti della lingua originale, ha il compito di rispondere a un’istanza che c’è nell’originale, che è quella della sua traducibilità. La parola poetica chiede di essere tradotta, anche se non esiste nessuna traduzione, perché eccede la lingua originale in cui si iscrive: si spinge contro i suoi limiti. È essa stessa una traduzione che forza e tradisce la lingua originale. Il traduttore quindi non è un funzionario del linguaggio, ligio al proprio dovere di trasformare un messaggio rendendolo comprensibile, come trasportandolo da un luogo a un altro: è piuttosto qualcuno che risponde a un appello, quello contenuto nell’originale, e il suo lavoro consiste nel rispondergli. Ecco quanto Celan intendeva con il “sentirsi interpellato”, il sentirsi chiamato dal testo che intendeva tradurre. I funzionari non scelgono, eseguono: il traduttore invece deve scegliere sempre, per non tradire il suo compito.
Benjamin lo aveva scritto anche lui: il traduttore entra in intimità con l’originale, ma non deve per questo diventare poeta a sua volta[35]; mostra l’intimità esistente fra le diverse lingue di cui lui, come traduttore, è il rappresentante. E come rappresentante può – lui solo – aggiungere qualcosa all’originale che l’originale non sapeva e non poteva dire, pur implicandolo: la sua traducibilità, un “segreto” lo chiama Benjamin, cioè il fatto che l’opera d’arte sia capace di mutare nel tempo, durando e parlando pur sempre a chi la ascolta in maniera di volta in volta differente (oggi leggiamo Omero non certo come lo leggevano i greci o i rinascimentali, eppure ancora ci parla). La “parentela” fra le lingue non è meramente l’indice di una rassomiglianza e di una riproducibilità (questo sarebbe solo il piano tecnico della traduzione), ma indica qualcosa di comune – la cosalità della cosa, su questo Benjamin e Heidegger concordano – che resta inevaso nell’originale, cioè in una sola lingua. Questa lingua che sarebbe come oltre le lingue e che tutte le accomunerebbe, Benjamin la chiama la “pura lingua”, estranea a ogni lingua ma verso cui tende ciascuna nel suo dire.
Per questo ogni traduzione non è una riproduzione (dell’originale), ma un’aggiunta, un incremento. È come una “violenza” della lingua sulla lingua, quella del traduttore, in nome di una pura lingua che, per quanto irraggiungibile fattivamente, esiste grazie alla stessa traducibilità. Ecco perché – scrive sempre Benjamin – la traduzione possiede questo “unico e grande potere” di mostrare la “pura lingua”, che è la lingua della verità (pura, nel senso che in lei non occorrerebbe più nessuna traduzione). Per questo il traduttore è “libero” e dotato “di un nuovo e superiore diritto”[36]. Perché nel suo tradurre raccoglie come i frammenti di questa pura lingua cui inevitabilmente si tende, senza restare prigioniero della propria lingua (nella traduzione in tedesco di Char, per esempio, il tedesco si francesizza e il francese si tedeschizza, per così dire: si arricchiscono entrambe).
Celan corrisponde pienamente a questo intento, nel suo lavoro di traduttore: le sue traduzioni sono spesso intensissime e straordinarie (per esempio quelle di Shakespeare del 1963), tanto che in alcuni casi si rivelano addirittura “migliori” e più intense degli stessi originali (è il caso, per esempio, delle poesie di Jules Supervielle, dove la lingua della traduzione mette decisamente in ombra la lingua e i modi linguistici espressivi dell’originale e quindi la traduzione stessa, come scrive G. Steiner, diventa “il più crudele degli omaggi” [37]).
Questo vale perché il dialogo fra l’io e il tu, l’io del traduttore e il tu dell’autore, si ribaltano in continuazione alternandosi in nome di quell’indicibilità che resta un orizzonte sempre aperto della dicibilità, e accomuna ognuno in un dialogo interminabile. Almeno finché resta vero dialogo, che non dev’essere mera ripetizione o comprensione di uno nei confronti dell’altro, ma costruzione e disposizione verso quell’apertura che Benjamin aveva chiamato “pura lingua” e Celan vero ascolto reciproco, dove si resta (direi: “costruttivamente”) in cammino (mentre nella mera e simmetrica riproducibilità specchiante ci si fermerebbe lì, non occorrerebbe più andare avanti).
Conclusione
Per concludere, si potrebbe aprire un nuovo ambito e prestare attenzione al rapporto della poesia non solo con la traduzione, ma anche con altre forme espressive artistiche. Chiedersi per esempio perché Celan abbia voluto inserire in alcune edizioni delle sue raccolte poetiche a tiratura molto limitata delle opere della moglie Gisèle? “La poesia elude l’immagine” ha scritto nel 1969[38]. Forse per questo può accompagnarsi alle immagini di Gisèle? E cosa succederebbe se accadesse l’inverso?
C’è un’operazione di Anselm Kiefer dedicata a Celan nel 2021 – Pour Paul Celan/Für Paul Celan [39](in cui l’artista continua il suo lavoro sulla memoria europea, attraversata dai suoi conflitti) che lascia pensare proprio nel senso di quell’incremento d’essere reciproco non solo fra le lingue, ma anche fra le arti, dove non c’è piatto rispecchiamento, ma arricchimento o comunque trasformazione. Kiefer ha realizzato 19 enormi tele liberamente disposte nel gigantesco spazio libero interno al palazzo espositivo con addosso scritte in gessetto bianco, in corsivo, le poesie di Celan[40]. Come se fossero in dialogo, i versi si sovrappongono alla pittura (le tele sono state progettate tra il 2015 e il 2021, ma Kiefer lavorava su Celan già dal 1981). Già da anni Kiefer aveva usato Celan nelle sue opere e installazioni, ma lo aveva esposto solo come libri disposti su librerie. Adesso invece c’è una sorta di contaminazione reciproca soprattutto sui temi cari all’artista, in particolare la memoria di quanto accaduto nella Seconda guerra mondiale, al passato che non passa, ai traumi rimasti irrisolti. Oltre ai versi scritti (fra cui il testo di Todesfuge), ci sono opere che fondono la poesia e l’immagine in una specie di profanazione simbolica, come nel caso di un vero bunker in cemento armato dalla cui cupola e pareti in calcestruzzo si drizzano per aria dei papaveri essiccati con tutto il loro lungo stelo, esplicito richiamo al titolo della prima raccolta di poesie (Papavero e memoria)[41] (e chissà quanto Celan lo avrebbe effettivamente apprezzato, visto che era rimasto scandalizzato e sconcertato, oltre che disgustato, quando nel maggio ’60 a Parigi alcuni studenti avevano salutato provocatoriamente la polizia col braccio teso nel saluto nazista). Kiefer stesso ha rivelato (nel suo diario scritto in preparazione dell’esposizione, presente in catalogo): «A scuola studiavamo poesie come “Todesfuge”, fuga di morte. Già all’epoca per me Celan era il più grande poeta del XX secolo. Tempo dopo ho affrontato le poesie più tarde ed ermetiche. Non potendo coglierne la totalità, cominciai a impararle a memoria. Celan non si accontenta di contemplare il nulla, lo ha vissuto e attraversato. Io sono solo un testimone di ciò che resta». Per questo, aggiunge come artista, «Uso la storia come fosse argilla. Col tempo ho capito che la vera, unica storia non esiste. Io ne raccolgo i frammenti e modello la mia»[42]. Per farlo, però, ha appunto bisogno di altre voci, di parole oltre le immagini, e di immagini oltre le parole. Un modo per reagire a Celan, rimasto senza parole nella Senna sotto il ponte Mirabeau.
[1] P. Celan, Microliti, (1969, n.1), tr. it. Mondadori, Milano, 2000.
[2] M. Heidegger, Sentieri interrotti, tr. it. Bompiani, p. 75
[3] Ivi p. 388
[4] Cfr.P. Celan, Il Meridiano, dove nelle ultime righe parla di “immaterialità però terrestre” (cit. da Derrida, Shibboleth, p. 28) e La verità della poesia, tr. it. Einaudi, 1993, p. 21.
[5] P. Celan, La verità della poesia, p. 35.
[6] Ivi p. 11
[7] Idem
[8] Ivi p. 36 e pp. 13, 15 ecc. (da Il Meridiano)
[9] Idem
[10] Celan, Poesie, tr. it. Mondadori, Milano, 1998, trad. di Giuseppe Bevilacqua, p. 961 (Todtnauberg).
[11] Idem, p. 337 (Stretta)
[12] F. Duque, V. Vitiello, Celan Heidegger, Mimesis, 2011, p. 47. E, scritto probabilmente dopo l’incontro a Todtnauberg, ecco un’altra aspra critica di Celan: Celan, Microliti, scrive così nel 1967 su Heidegger: “Heidegger, col Suo contegno indebolisce in misura determinante il poetico e, oso supporre, il teoretico nella loro seria volontà comune di responsabilità.” (1967, 7)
[13] Arnika, Augentrost, der / Trunk aus dem Brunnen mit dem / Sternwürfel drauf, // in der / Hütte, //die in das Buch / – wessen Namen nahms auf / vor dem meinen? – / die in dies Buch / geschriebene Zeile von / einer Hoffnung, heute, / auf eines Denkenden / kommendes / Wort / im Herzen, // Waldwasen, uneingeebnet, / Orchis und Orchis, einzeln, // Krudes, später, im Fahren / deutlich, // der uns fährt, der Mensch, / der’s mit anhört, // die halbbeschrittenen
Knüppelpfade / im Hochmoor, // Feuchtes, / viel.
[14] Citare la poesia dove dice “in nessun luogo si chiede di te…”in Poesie, Mondadori, p. 333 (“Stretta”)
[15] Poesie,cit.p. 1123
[16] Poesie, cit. p. 983 (ma sul buio come dimensione delle parole poetiche vedi vari passi in Microliti)
[17] In un articolo scritto nel 1949 e pubblicato nel 1951 Adorno aveva scritto che dopo Auschwitz non sarebbe più stato possibile scrivere poesie, testo ora in Adorno, Prismi, tr. it. Einaudi, Torino, 1967.
[18] Poesie, p. 1127; ma di balbettio aveva parlato anche nella poesia Schmerz (La sillaba Schmerz), pp. 483-485, balbettando il dolore negli ultimi versi come se quello fosse l’unico modo possibile rimasto per dirlo. Ma anche in Keine Sandkunst mehr, ivi., p. 563
[19] Cit. in P. Gnani, Scrivere poesie dopo Auschwitz, p. 178
[20] Il meridiano, p. 14, 16-17 (in La verità della poesia)
[21] Cit. in Gnani, p. 176
[22] Celan lo sapeva bene, perché in molte poesie parla della morte e dell’assenza di Dio, di questa amara consapevolezza per cui non potevamo avere più nulla di consolatorio, da quella parte.
[23] H.G.Gadamer, Chi sono io, chi sei tu: su Paul Celan, tr. it. Marietti
[24] Celan, microliti, (1954, 21): ”il poeta è implicato nell’accadere, partecipa, manca dunque di ogni distanza rispetto al guardato”.
[25] “”La poesia […] diventa colloquio – spesso colloquio disperato” in La verità della poesia, cit. p. 16
[26] Y. Bonnefoy lo aveva capito perfettamente, quando in relazione all’affaire Goll ha scritto che in gioco non c’era tanto il problema ridicolo del plagio, quanto piuttosto il senso del suo fare poesia e del suo particolarissimo stile e linguaggio in relazione proprio al dialogo e all’ascolto come forma pura della comunicazione umana (Bonnefoy, Ce qui alarma Paul Celan, Galilée, Paris 2007)
[27] Non a caso in un libro sulla poesia e in particolare su Celan D. Schlesak mette come titolo Poesia, malattia pericolosa, Joker, Novi Ligure 2008
[28] Heidegger, Sentieri interrotti, cit.: “E’ la parola che conferisce la presenza, cioè l’essere, nel quale qualcosa si manifesta come essente” (179). La rinuncia dell’ultimo verso resta un dire: conserva un rapporto con la parola, ma trasformato. “Il dire giunge ad un altro ritmo, ad un altro “mezos”, ad un altro tono” (180). Per il poeta è stata una scoperta folgorante: “Qualcosa d’insospettato, di tremendo gli stava dinanzi, avvincendo a sé la sua attenzione: questo, che solo la parola fa essere una cosa come cosa” (180). Il dire si trasforma “nell’eco di un Dire originario” (182). E poi: “Lo stesso termine “Logos”, in quanto termine per indicare il dire, è però al tempo stesso il termine per indicare l’essere, cioè l’esser presente di quanto è presente. Dire originario ed essere, parola e cosa , s’appartengono vicendevolmente in virtù d’un legame occulto, il cui pensamento è appena all’inizio, e destinato a non esaurirsi mai (..). Poetare e pensare sono entrambi un dire privilegiato, in quanto ambedue affidati al mistero della Parola come al massimamente Degno d’esser pensato e perciò da sempre l’un l’altro intrinseci” (186-187).“
[29] Poesie, cit., “Salmo”, p. 379
[30] Oltre a tradurre poeti come Mandel’stam, Esenin, Valéry, Char o Shakespeare, ha tradotto anche Chekov, Kafka e altri autori non necessariamente poeti e continua a tradurre fino alla fine, al 1970.
[31] Chi sono io, chi sei tu
[32] P. Celan, R. Char, Correspondance 1954-1968, suivie de la Correspondance René Char – Gisèle Celan-Lestrange (1969-1977), éd. Bertrand Badiou, Paris, Gallimard, 2015, pp. 151 e 72
[33] Cfr. Camilla Miglio, che ha ben sottolineato l’importanza dell’opera di traduzione in Celan, come parte integrante della sua poetica, Vita a fronte. Saggio su Paul Celan, Quodlibet, Macerata, 2005, p. 65
[34] W. Benjamin, Angelus novus, tr. it. Einaudi, Torino, 1981, p. 39
[35] Idem, p. 47
[36] Idem, p. 50
[37] cfr. G. Steiner, Dopo Babele. Aspetti del linguaggio e della traduzione, Garzanti, 1975.
[38] Microliti, (1969, 28)
[39] Grand Palais Ephémère, Paris, mostra “Pour Paul Celan” (17/12/ 2021 – 11/1/2022) a cura di Chris Dercon
[40] . https://www.vivicreativo.com/anselm-kiefer-illustra-la-poesia-di-paul-celan/
[41] C’è anche un aereo di piombo, con ali appesantite da libri dai quali sbucano in tutte le direzioni dei papaveri, e il titolo dell’opera è “Pavot et mémoire”.
[42] Catalogo della mostra, p. 5, Anselm Kiefer Pour Paul Celan, Grand Palais, Paris, 2021, e https://www.ilgiornaledellarte.com/articoli/l-emigrato-kiefer-cerca-l-esule-celan-/138029.html









